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Mitsuru Adachi, come te nessuno mai

Se in questo momento state leggendo Katsu! o Cross Game del maestro dei sentimenti Mitsuru Adachi, sono due le più probabili situazioni accettabili: 1) siete fan di antica data delle opere del disegnatore, magari soltanto perché a suo tempo, quando eravate più giovani, sono passate in televisione e oggi traete diletto a proseguire la conoscenza del simpatico signore che lavora per Shogakukan; 2) per un qualche volere divino o un piccolo miracolo, avete messo da parte la paccottiglia manga che circola da troppo tempo in Italia e vi siete innamorati della semplicità, dell’umiltà e del savoir faire del fumettista giapponese che, per comprensibili ragioni (nessuno vi toglierà il saluto per questo), mai prima d’ora avevate avvicinato alle vostre pupille.
Bene, qualsiasi sia l’ordine di adesione al club, una volta entrati non se ne può uscire tanto facilmente.
 
La prima volta è colpa della televisione
Per chi c’era alla fine degli anni ‘80, il ristretto entourage televisivo ispirato ai fumetti di Mitsuru Adachi doveva sembrare una curiosa estraneità al consueto universo dei cartoni animati giapponesi. La prima cosa che deve aver colpito gli spettatori di allora, sono state sicuramente quelle baldanzose orecchie a sventola di tutti i personaggi (compresi gli adulti) in serie come Prendi il mondo e vai (1985), esemplare numero uno a sbarcare sulle reti Fininvest, seguito a ruota da Questa allegra gioventù (1986), che a quanti ancora non masticavano bene la materia nipponica pareva addirittura uno strano “sequel” del precedente.
La seconda novità rispetto al mainstream era il generale coinvolgimento emotivo che gettava spettatori e personaggi in una stessa arena fra commedia, dramma e racconto agonistico mai visto così prima in televisione. Un coinvolgimento che si nutriva delle speranze, delle angosce e delle ambizioni della generazione più giovane e lì talvolta si fermava, perché altro da raccontare non c’era: sia materialmente, sia per acconsentire il transito a quella strepitosa sintassi del melodramma animato portato avanti da personalità come Gisaburo Sugii o Tomomi Mochizuki, che l’ingresso nel mondo degli adulti hanno sempre saputo raccontarlo con tocco morbido e personale. Tutto intorno, c’era poi la massa di reti televisive locali che si era presa l’onere di presentare le altre due storiche serie (imparentate con i serial precedenti per via del segno grafico e della regia), non meno tartassate dal punto di vista linguistico e del doppiaggio, ma elementi di supporto a una fenomenologia che per l’epoca non si poteva ignorare. Anche perché Adachi sulla televisione italiana è sempre stato un evento raro, poco trasmesso, più spesso ignorato a discapito di personaggi più alla portata del pubblico.
Con l’epoca degli anime e della loro seconda primavera (quella dell’home video di inizi anni ‘90), immaginate la sorpresa per i nostalgici dei gemelli Tatsuya e Katsuya Uesugi o della bella Minami vedersi recapitare direttamente in videocassetta un nuovo tassello filmografico: Slow Step (1990). Bei tempi. Il contesto è di quelli che ancora si stenta a inquadrare per ovvia mancanza di informazioni, ma per l’ingenuo spettatore di quegli anni importa poco: ora sa chi c’è dietro e sa che il paese delle meraviglie giovanil-nostalgiche non ha fine. In fondo c’è sempre il mercato librario di importazione dei volumetti originali per soddisfare la fame di Adachi (anche senza capire un’acca di ideogrammi giapponesi). Slow Step, sostenuto da una colonna sonora avvincente, intanto segna il suo piccolo importante successo e mette sull’avviso: c’è molto altro là fuori. All’attesa e mai trasmessa H2 (1995), in tempi recenti il dvd è corso in soccorso dei fan mettendo a disposizione due pregevoli film diretti da Gisaburo Sugii, Touch – Miss Lonely Yesterday (1998) e Touch – Cross Road (2001), che a modo loro proseguono la storia di Prendi il mondo e vai mostrandoci Tatsuya e Minami un pochino più adulti.
Ma il passo da gigante lo fanno i Kappa Boys: pubblicano coraggiosamente il fumetto Rough e le cose si fanno terribilmente complicate per loro visto che il manga stenta a decollare. Eppure basta saper aspettare: oggi è anche grazie alla loro perseveranza se Mitsuru Adachi è diventato un autore di richiamo.
 
E allora si riparte da capo
Come tante cose della cultura animata giapponese in Italia, vedi la consacrazione assoluta di una disegnatrice come Rumiko Takahashi o di un vate indistruttibile come Go Nagai, tutto ciò che era stato assimilato attraverso il piccolo schermo, alla fine si riappropria del suo originale contesto: il mondo del fumetto.
La prova editoriale di Rough nel 1995 è stata probabilmente una delle più difficili non solo per il mercato italiano dei manga, ma anche per la permanenza del nome di Mitsuru Adachi nel cuore di quegli stessi fan (che da principio sono pochini, forse nostalgici di estrazione televisiva) e di decine di migliaia di altri che – secondo copione – avrebbero imparato a conoscere i suoi lavori solo in seguito. Si può dire che, ad eccezione delle primissime prove d’artista (quelle concepite in casa Shogakukan assieme a Juzo Yamazaki o Mamoru Sasaki) di lui è arrivato un consistente numero di titoli, anche i racconti brevi raccolti in antologia da Star Comics o le ultime novità – sulle quali non c’è ancora appiglio con l’animazione.
Qualcosa evidentemente s’è smosso, o per inerzia in quel difficile contesto che è il mercato nostrano o per fatale infatuazione da parte del grande pubblico.
 
Generalità d’artista
Mitsuru Adachi è nato a Isezaki nel 1951. Da queste parti di lui si sa poco sotto il profilo umano, e due sono le interviste importanti pubblicate in Italia (entrambe apparse su Kappa Magazine) che rivelano qualcosa in più dell’artista e della persona Mitsuru Adachi. Sappiamo che in gioventù ci fu folgorante passione per riviste come Com, fondata da Osamu Tezuka, e tenace partecipazione da parte sua alla vita (spesso traballante) di quella rivista tramite invio di fumetti brevi per farsi conoscere.
Alla fine la strada verso il professionismo Adachi la trova. Ovviamente passando per le forche caudine dell’assistentato (le biografie citano spesso il nome di Isami Ishii, uno che lavorava per le vignette sui quotidiani) e per lavori costruiti a tavolino con i redattori di Shogakukan. Di certo e inattaccabile, c’è la sua passione per lo sport e il baseball in particolare che negli anni ‘70 godeva di smisurato interesse da parte delle case editrici e degli staff di produzioni animate. Era la golden age del fumetto a carattere sportivo, quello derivato da Ikki Kajiwara e Noboru Kawasaki o Tetsuya Chiba, soltanto rivisitato con estro poetico e birichino da Adachi. Molti appassionati ricordano che la parola più frequente nei suoi lavori è “koshien” e talvolta essa è il vero grande traguardo nei suoi manga. Ci dà dentro in tal senso già dal suo primo manga di successo, Nine (1979), che lo porterà a Touch e a Hiatari Ryoko fino a H2. Naturalmente la lista di titoli è molto più nutrita e l’augurio è di vedere un giorno o l’altro completata la bibliografia in lingua italiana. Fino ad allora, tanto di cappello agli editori (Star Comics e Flashbook) che il nome di Adachi lo trattano con la professionalità che merita.
Oggi, ad esempio, non si può dire che i lettori non abbiano la loro dose mensile di straordinaria poesia, un misto di nostalgia e orizzonti lontani da conquistare, più la componente agonistica che non manca mai. Tra la collezione di racconti brevi Short Programs e il redivivo Katsu!, il colpo di fulmine per noi è naturalmente Cross Game (2005). Il baseball appare giusto il tempo di farci capire che presto o tardi occuperà un suo spazio. Ma intanto, largo a giovanissimi personaggi che sono quasi una boccata di freschezza e novità, tutti con la battuta pronta da sparare, cose interessanti da riferire, e momenti struggenti da vivere vignetta dopo vignetta fino al colpo al cuore che, giù in calce al volume uno, lascia un attimo di amarezza e vuoto. Perché la vita, anche a fumetti, secondo Adachi, è un tragitto tutto curve e dossi. Una eredità che arriva da lontano e che andrebbe riposta con cura per riparlarne solo quando la pubblicazione sarà conclusa.
In tutti questi anni di onorata carriera, il disegnatore ha saputo costruirsi un mondo fatto su misura, inventandosi uno stile di disegno buffo e “piacione”: ottimo per l’ironia e idoneo anche per il dramma (la morte è uno dei temi più ricorrenti) o per affrontare un discorso sui giovani più intrigante di quanto non si facesse all’epoca. C’è sempre stata una gara fra i manga-ka nell’immaginare il più coerente universo giovanile e il desiderio a lungo taciuto di farli finalmente sorridere – in un mondo che non li ama – è il grande traguardo che Adachi sembra aver tagliato prima di altri. Dunque, non solo attivo autore di casa Shogakukan, ma anche un narratore molto speciale.
 
Per le immagini: © Shogakukan

 
 
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