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Approfondimenti

Il grande sogno di Maya

La notizia in Giappone ha allietato i recidivi che pedinano le sorti del fumetto teatrale più famoso dello shojo manga, coloro che in due parole… sanno pazientare; perfino trent’anni dopo che la signora Suzue Miuchi inventò il celebre personaggio di Maya Kitajima in La maschera di vetro (Glass no kamen, 1984). La notizia è ovviamente la ripresa della pubblicazione delle storie che dovrebbero condurre al tanto sospirato epilogo, con le due eterne rivali Maya Kitajima e Ayumi Himekawa alle prese con la rappresentazione della Dea Scarlatta.
Meno pazienti si sono dimostrati i produttori televisivi dei primi anni ‘80. Per tutti loro Maya Kitajima, ragazzina tredicenne un po’ svampita che sogna di calcare le scene dei teatri giapponesi, rappresentava una eroina dello shojo anticonvenzionale, romantica quanto un pezzo di ghiaccio (senza offesa), buona per coprire il palinsesto di NTV tra la prima e la seconda stagione di Occhi di gatto, ma con quel suo sacro fuoco della recitazione che, inaspettatamente, la trasformava in una persona diversa e ricca di fascino. E talvolta romanticamente micidiale.
Affidare la direzione generale a un veterano come Gisaburo Sugii, già in odore di santità melodrammatica con Prendi il mondo e vai (1985), deve essere sembrata la mossa più logica dovendo concentrare l’azione entro i limiti stringati che il fumetto della Suzue all’epoca poteva offrire (i primi 12 volumi). E infatti nell’anime mai si verrà a sapere chi delle due rivali otterrà il ruolo della Dea Scarlatta. Piuttosto, quasi come in un film, verrà loro prospettato un luminoso avvenire in televisione e in teatro. Di tutto quanto seguirà nel manga, gli spettatori italiani dell’epoca nulla sapevano ma intanto l’ascesa della ragazzina – aiutata dalla intransigente Signora Tsukikage (il maiuscolo è d’obbligo) – dai bassi ranghi di cameriera a giovane promessa della recitazione, beh era qualcosa che faceva venire la pelle d’oca. Soprattutto al termine del trionfale spettacolo di Anna dei miracoli che la giovane protagonista reciterà quasi come in una sfida con la mamma della sua eterna rivale, Utako Himekawa. Un episodio che fu lavorato meglio in termini qualitativi ma che non aiutò più di tanto gli indici di ascolto che vedevano Il grande sogno di Maya in continua caduta.
Assolutamente da ricordare la sigla d’apertura della serie che fu firmata da Shingo Araki e Michi Himeno, gli storici character designer di Lady Oscar e I cavalieri dello Zodiaco.
Della serie televisiva, di cui oggi esiste un bel remake televisivo (2005), una mini serie di Oav nonché svariati tv drama, Yamato Video propone l’imperdibile Memorial Box.
 
Sam il ragazzo del West
Di questa serie si è sempre sentito parlare per via della presenza di Isao Takahata e Hayao Miyazaki nei famigerati episodi 15 e 18. Una presenza che vuol dire poco, tranne in termini di qualità dell’immagine, nelle rispettive carriere dei due registi: per l’epoca l’anime prodotto da Tokyo Movie Shinsha era un rispettabile transito nella loro produzione seriale.
Il caro vecchio West s’era visto di rado nelle produzioni giapponesi: riapparirà fugacemente in un episodio di Candy Candy (un inseguimento su carro), sarà l’ambientazione di Laura (versione a cartoni di La casa nella prateria del 1975) e anche quella dell’orripilante Jenny dai lunghi capelli (1979).
Ma quello autentico, con saloon e pistoleri, cowboy e diligenze è uno soltanto: il vecchio West di Sam il ragazzo del West (Koya no Shonen Isamu, 1973), l’anime cult diretto da Kyusuke Mikuriya (Lupin III) e Shigetsugu Yoshida che racconta di un giovane ragazzo, figlio di un giapponese e di una pellerossa, accolto in una gang di banditi e da questi allevato (anche a suon di pugni e calci) per diventare un feroce pistolero che li aiuti nelle rapine e in ogni scorribanda. Quando Sam viene posto davanti al “dovere” di assassinare a sangue freddo un uomo, si ribella lasciando il gruppo per rifarsi una vita e forse ritrovare il padre.
La serie, che si compone di 52 episodi, non tradisce l’originale provenienza a fumetti da Noboru Kawasaki, di cui si indovina il celebre tratto (in tv firmato da Shingo Araki) e la ruvidezza tipica degli anni ‘70. Kawasaki aveva contribuito al successo di Tommy la stella dei Giants e di diversi altri manga a carattere sportivo grazie alla penna di Ikki Kajiwara. Qui, come nel fumetto, non manca di infondere un forte realismo nella storia: quella di Sam è in fondo la storia di una redenzione che si intrufola nel grande sogno americano. E le opportunità non mancheranno al giovane.
In Italia la serie è diventata anche di culto per la sigla cantata da Nico Fidenco, e si dimostra un capitolo importante nella storia dei cartoni giapponesi per i “magnifici sette” che si aggiravano nello staff di produzione: Daikichiro Kusube (1935-2005, Teppei), Yoshio Kuroda (Il cane delle Fiandre), Soji Yoshikawa (Conan il ragazzo del futuro), Takeo Watanabe (lo storico musicista di tanti anime), Masami Hata (Little Nemo), Tetsuo Imasawa (Kimba) e Minoru Maeda (Touch – Cross Road).
 
Uomo Tigre
Prima di lui, solo Animal 1 (1968) aveva trattato la lotta libera. Dopo di lui, sarà difficile immaginare qualcuno che gli somigli anche vagamente. Parliamo ovviamente di Uomo Tigre (Tiger Mask, 1969-1971), fumetto di Naoki Tsuji e Ikki Kajiwara (edito in Italia da Salda Press) e superbo anime televisivo prodotto da Toei Animation. Nell’epopea dei cartoni animati a carattere sportivo, c’è sempre stata una componente che metteva al bando i deboli di cuore, concedendo talvolta la sovranità assoluta alla violenza e a un approccio introspettivo che schiacciava coloro che non riuscivano a superare prove e sfide da vincere. Erano i tempi nei quali al mero spettacolo animato, registi e disegnatori si sentivano in dovere di spingersi oltre, raccontando qualcosa del loro Paese e del loro tempo.
Amatissimo dal giovane pubblico giapponese dell’epoca, Uomo Tigre è l’esemplare che – assieme a Rocky Joe e  Arrivano i superboys – ha conservato un grandioso repertorio di messaggi importanti da inoltrare alle generazioni di ieri e oggi. Un repertorio che, come minimo, dovrebbe solleticare l’interesse e mettere sull’avviso quanti ancora considerano i cartoni animati prodotti per bambini.
Nella storia di Naoto Date, ex lottatore di Tana delle Tigri (che ha qualcosa delle vecchie scuole di samurai e molto di una ferale associazione di killer) che decide di affrontare sul ring gli emissari assoldati per ucciderlo a causa del suo tradimento, mentre al tempo stesso ripulisce la propria coscienza aiutando l’orfanotrofio “Chibikko Ie”, c’è la storia di un sopravvissuto. Basta rivedere le immagini della sigla dell’anime per capire che l’olocausto atomico di Hiroshima non è una spettrale cartolina gettata alla rinfusa fra le immagini dagli autori della serie. È solo un aggancio simbolico che unisce destini umani: Naoto, orfano anch’egli, aiuta altri come lui (i bimbi Kenta, Yoshibo, Chappy e Gaboten) mentre ritrova un contatto umano con Ruriko Wakatsuki, la giovane donna che si occupa dell’orfanotrofio, e con l’amico lottatore Daigo Daimon.
Nell’altra vita, quella che conduce mascherato da Uomo Tigre, è un lottatore imbattibile: prima spietato sul ring per assecondare gli insegnamenti di Tana delle Tigri, poi redento e salvifico per un agonismo pulito e leale. Nessun fraintendimento: la serie è un gigantesco dramma umano che racconta di che pasta è fatta la vita, piuttosto che perdersi soltanto negli incontri di wrestling (che sono comunque fondamentali). Come ha scritto qualcuno, Uomo Tigre ha a cuore troppe ideologie: tiene alto il tema dell’orfano perché il Giappone della fine degli anni ‘60 stava vivendo il suo secondo baby boom; inoltre numerosi artisti di quella generazione avevano perso durante la guerra genitori e familiari. E siccome è anche il Giappone della crescita economica e degli abusi dei colossi industriali sotto l’Amministrazione Ikeda, nella serie aleggia un altro spettro ancora: quello dell’inquinamento indiscriminato di mari e fiumi che causò gravi problemi di salute alla popolazione. Uno di questi episodi divenne in seguito celebre come “Asthma Yokkaichi” (dalla città di Yokkaichi che visse i momenti peggiori).
La violenza che vediamo sul ring della serie – colpi assestati a tradimento con oggetti inappropriati, liquidi organici, suoni sinistri di sfregamento contro gli occhi dei malcapitati avversari e via rabbrividendo – è la più ovvia metafora di una società imperfetta e malata che gode nello schiacciare e dominare gli altri con la paura (quanti fra voi si sono sentiti a disagio all’apparire del perfido Mr. X?).
Se il fumetto di Tsuji e Kajiwara era una cosa, la serie sotto la direzione di due veterani Toei, Tomoharu Katsumata e Takeshi Tamiya, assumerà un corso personale anche dal punto di vista grafico e della personalità dei singoli animatori. Per dirla con il genere a cui appartiene l’anime, fu una palestra per gente come Kazuo Komatsubara (Capitan Harlock), Koichi Murata (Heidi) e Yoshinori Kanemori (Queen Millennia). In realtà è quasi impossibile non riconoscere al character designer della serie, Keiichiro Kimura, i meriti maggiori. Kimura era arrivato in Toei Doga nei primi anni ‘60 grazie a Daikichiro Kusube che conosceva dai tempi della scuola, riuscendo poi a superare brillantemente il test di ammissione. La gavetta per lui significa un rapido passaggio da intercalatore a direttore delle animazioni (sakkan) sotto la supervisione dell’amico e di Yasuo Otsuka che, nei giorni lontani da matricola, è ricordato come la persona da cui imparò il mestiere affinando lo stile. Se Uomo Tigre possiede quel tratto caratteristico e un più che discreto valore qualitativo delle immagini animate, lo dobbiamo al periodo formativo trascorso con i due veterani Toei. Per Kimura, inoltre, vale il concetto che un bravo animatore è tale se passa attraverso una durissima fase da intercalatore trascorsa a disegnare quanti più disegni gli è possibile realizzare. Per lui, che usava solo la matita al lavoro, disegnare i personaggi in movimento fu un ulteriore banco di prova e a guadagnarci fu l’intera serie. Suo anche quel pazzesco modo di lottare sul ring con lunghe falcate prima di passare all’azione, e salti micidiali che ovviamente erano fuori dell’ordinario ma tremendamente efficaci per il diletto del pubblico. Queste e mille altre ragioni fanno di Uomo Tigre uno dei titoli storici della storia degli anime. In Italia arrivò su Rete 4 nel maggio 1982 con i suoi 108 episodi, mentre in Giappone era partita da poco una seconda serie, Tiger Mask II, con protagonista Tatsuo uno dei piccoli dell’orfanotrofio (e fan di Naoto Date), cresciuto e pronto a seguire le orme del suo idolo contro la neo-nata Tana delle Tigri.
 
Il grande sogno di Maya © Suzue Miuchi – Hakusensha – Eiken
Sam il ragazzo del West © Souji Yamakawa/Noboru Kawasaki/TMS
Uomo Tigre © Toei Animation

 
 
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