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Curiosità

Storie dell’animazione giapponese: Vaghe stelle d’Oriente - Primo capitolo

La preistoria dei cartoni animati giapponesi è esattamente come ce la immaginiamo: in bianco e nero e a modo suo esotica. La spinta decisionale che convinse i pionieri a cimentarsi nell’arte del disegno animato è una replica esatta dello stupore vissuto alla fine del XIX secolo con la presentazione del Kinetoscopio Edison a Kobe nel 1896. E sappiamo già che “a questa prima meraviglia si sostituirono l’anno dopo i più evoluti Cinématographe Lumière e Vitascopio Edison, che rispetto alla prima invenzione permettevano un divertimento collettivo con le immagini proiettate su uno schermo” (cfr. Maria Roberta Novelli, Storia del cinema giapponese, Venezia, Marsilio, 2001, pag. 19).
In questo caso la novità nasceva dalla proiezione nei primi anni ‘10  presso il Cinema Imperiale Asakusa di Tokyo di un cortometraggio dalla nazionalità sconosciuta, come ci ricorda Francesco Prandoni nel suo Anime al cinema – Storia del cinema di animazione giapponese 1917-1995, Milano, Yamato edizioni). E tanto bastò a un drappello di artisti, quasi tutti usciti dalle pagine illustrate dei maggiori quotidiani del periodo, per tentare a loro volta l’avventura in un ambiente senza reali garanzie, con pochi finanziamenti, tecniche rudimentali e un pubblico affezionato già alle cose che arrivavano dall’estero (ad esempio: Mickey Mouse o Popeye). Fortunatamente gran parte delle proposte di pionieri riconosciuti come Seitaro Kitayama (1889-1945), Hekoten Shimokawa (Miyako, 1892-1973) e Jun’ichi Kouchi (Okayama, 1886-1970) presero subito le distanze da soggetti e iconografia occidentale, e si impegnarono a dare il giusto rilievo estetico alle personali passioni, come i racconti tradizionali di Kitayama o le storielle popolari immaginate da Kouchi, quasi tutte destinate al pubblico infantile.
La progenitura del cinema animato locale si qualifica a seconda dei punti di vista incerto o duplice: se nel 1916 entra in lavorazione Saru Kani Gassen (La sfida tra la scimmia e il granchio) di Kitayama, è altresì vero che il filmato in assoluto proiettato per primo resta Imokawa Mukuzo Genkanban no maki (Il portinaio Mukuzo Imokawa, 1917) di Hekoten Shimokawa. A completare un quadro produttivo che sembra incoraggiare l’iniziativa e già ricco di vitalità, Hanawa Hekonai meito no maki (Hekonai Hanawa e la spada di prima classe, 1917) di Jun’ichi Kouchi è invece la prima opera di animazione a raggiungere le pagine di una rivista di cinema ed esservi recensita. Né tutti questi importanti nomi di animatori mancarono di ispirarsi ai brevi manga in circolazione sui giornali dell’epoca: è il caso di Nonkina Tosan Ryugumairi (Papà pacioccone va al palazzo del dragone, 1925) di Kimura Hakuzan tratto dalle strip di Yutaka Aso.
Nonostante la precarietà del momento e l’imbarazzante scarsità di mezzi tecnici rispetto alla macchina statunitense (i giapponesi realizzeranno i disegni su carta almeno sino alla fine degli anni Venti, passando al cinema sonoro soltanto nel 1933), il numero di filmati prodotti è però notevole: si tratta di cortometraggi di pochi minuti di durata, non tutti arrivati integri fino a noi. In questo panorama, dopo il ritiro di Shimokawa e di Kouchi, rispettivamente per ragioni di salute e problemi economici, le figure chiave su cui poggerà il successivo sistema produttivo sono già in fermento. Zenjiro “Sanae” Yamamoto (1898-1981) che proveniva dalla scuola di Kitayama e aveva una naturale attitudine a cimentarsi con opere didattiche, realizzerà cortometraggi di un certo spessore fino a quasi tutti gli anni ‘40 (tra cui Ubasute-yama, Ushiwakamuru) e sarà tra i principali fondatori di quella Shin Nihon Dogansha che nel secondo dopoguerra diventerà la Toei Doga. Da un punto di vista artistico, Noburo Ofuji (Tokyo, 1900-1962) fu senza dubbio l’animatore più progressista del gruppo e fu anche il primo a convogliare parte dei suoi sforzi in opere per un pubblico adulto: caratteristica che lo fece conoscere all’estero prima di chiunque altro grazie a Kujira (La balena, 1927). Di lui restano pure i celebri “chigoyami”: carta semitrasparente da cui ritagliava le figure umane da animare.
L’altro grande personaggio, Kenzo Masaoka (Nishio, 1898-1988) fu con ogni probabilità l’uomo dal temperamento artistico più sviluppato e dai felici esiti sul piano spettacolare. Raffinato artista a 360 gradi (aveva studiato pittura e musica fin dalla più tenera età), Masaoka decise di affiancare Shouzo Makino e Teinosuke Kinugasa in veste di assistente alla regia e direttore di produzione, dopo l’assunzione alla Makino Productions di Kyoto. E recitò al fianco di Tuyako Okajima nel film Hitojichi (Ostaggio), scegliendo di assumere la direzione di uno studio tutto suo, la Donbei Productions, grazie al quale ottenne i finanziamenti per realizzare alcuni film per bambini. Nel 1929 lo ritroviamo di casa alla Nikkatsu come operatore, direttore del reparto tecnico e di quello dedicato ai film didattici. Dopo la chiusura di questo dipartimento, Masaoka si appassionò definitivamente al cinema animato e mise in cantiere la sua prima opera da regista, Sarugashima (L’isola delle scimmia, 1930). Un preludio a quella Masaoka Film Productions tirata su a Kitano (sempre vicino Kyoto), in cui vedranno la luce le opere successive, realizzate in complicità con Seo Mitsuyo (1911) e Shiro Kido della Shochiku, compagnia cinematografica che gli offrì pieno sostegno economico.
Il primo frutto di questa collaborazione fu anche il primo esempio di cinema animato sonoro e si intitolava Chikara to onna no yononaka (Quello che conta al mondo sono le donne e il potere, 1932). Un’opera di tutto rispetto – un impiegato tradisce la moglie, donnone alto quasi due metri, con la bella segretaria sino allo scontro finale tra le due contendenti – in cui si usò un dialetto locale grazie alle voci di celebri attori dell’epoca (Roppa Furukawa, Akio Isono, Yoko Tsukushima e Ranko Sawa), e uno staff tecnico che vantava i nomi di Tadao Ikeda come sceneggiatore e autore dei dialoghi, Hiromasa Nomura in qualità di direttore del suono, Kimura Hazukan come operatore, Seo Mitsuyo nelle vesti di animatore-capo e Masaoka naturalmente in quelle di regista. Per un curioso gioco del destino, la prima del film ebbe luogo il 15 aprile 1933 nello stesso luogo in cui la storia dell’animazione giapponese era “iniziata” circa vent’anni prima: l’Asakusa Teikokukan Theater.
Oltre che personaggio fornito di immensa duttilità, Kenzo Masaoka fu anche artista assai prolifico. Pochi mesi più tardi realizzò Adauchi Karasu (1933) e Gang to odoriko (Il gangster e la ballerina, 1933), usciti dopo il clamoroso successo di Chikara to onna. In breve tempo i pochi critici dell’epoca non mancarono di riconoscere in lui una sorta di “George Méliès” giapponese, un merito suggerito dalle sue proverbiali competenze tecniche nel campo (rudimentale) degli effetti speciali (in Kaguyahime); se non addirittura un locale Walt Disney capace di sfornare in poco tempo opere quali Taachan no kaitei ryoko, il divertente Mori no yakyudan (dove fanno una breve apparizione addirittura Mickey Mouse e Minnie), Chasama ondo e Mori no yosei (La fata della foresta). Per ragioni di ordine economico si ritrova a dichiarare bancarotta e passare allo studio J.O. Production lavorando per conto di nuovi committenti e animatori (tra gli ultimi assunti c’è un giovane di nome Kon Ichikawa…).
Nel 1937 fonda la “Animation Society of Japan” con sede a Kyoto, e grazie al sostegno finanziario di Shochiku firma uno di seguito all’altro Benkei to ushikawa, Nyan no urashima, Yume no majutsushi e Tori no hoken kankyuuin.
Da un punto di vista artistico, sfortunatamente per molti di loro, l’epoca di pionieri e sognatori, segnata peraltro da un numero rilevante di ritiri e fallimenti, stava imboccando una strada a senso unico. Negli anni ‘30 le vicende politiche nel Sud-Est Asiatico si erano surriscaldate e il Giappone, da tempo in guerra con la Cina, iniziò a congelare i suoi rapporti diplomatici (e culturali) con gli Stati Uniti. È proprio in questo periodo che il cinema animato giapponese visse il suo momento di maggiore splendore, grazie al sostegno del Ministero della Marina Imperiale che si offrì come l’interlocutore più interessato del settore. Non a caso, una volta sbarazzatisi dei concorrenti occidentali, gli esotici personaggi dagli occhi a mandorla prendono la via del grande schermo all’insegna di uno sprezzante nazionalismo con ironia malsana nei confronti degli USA. In breve tempo si assiste all’arruolamento volontario di figure per bambini molto note come Fuku-chan, Mabo, Momotaro e Norakuro: strumenti nelle mani del militarismo nipponico e pertanto utilissimi per convogliare le giovani menti del glorioso Impero del Sol Levante contro il nemico occidentale.
Se Kenzo Masaoka era passato a dirigere il dipartimento “animazione” della Shochiku in attesa di tempi migliori, l’amico e collaboratore Seo Mitsuyo si ritrovò improvvisamente in una posizione privilegiata. Dopo diversi cortometraggi, tra cui quelli della serie Norakuro – il personaggio di maggior successo del disegnatore e fumettista Suiho Tagawa – , e la riconosciuta maestria nel produrre un impressionante numero di disegni, Mitsuyo prese in mano il pacioccoso bimbo “della pesca” Momotaro e lo trasformò in eroe cinematografico tout court nei primi due veri lungometraggi della storia della animazione nipponica.
Così scrive Francesco Prandoni nel suo Anime al cinema: “Nato da una pesca gigante portata dalla corrente di un fiume, momotaro è un fanciullo divino ricordato per la sua grande impresa compiuta a Onigashima (l’Isola dei Demoni), dove sottomette i feroci demoni con l’aiuto di un cane, una scimmia e un fagiano. Presenza costante nell’animazione giapponese fin dal 1918, Momotaro possiede due caratteristiche preziose per la propaganda: è noto a tutti i bambini, ed è uno specialista nel combattere i demoni. […] Nel 1943 esce Momotaro no umiwashi (Momotaro l’aquila dei mari), un film commissionato dal Ministero della Marina Militare per celebrare l’attacco a Pearl Harbor. La regia è affidata a Seo Mitsuyo, che lavora con entusiasmo convinto che sia la sua grande occasione. Quando viene completato, con i suoi 37 minuti è il cartone animato più lungo mai realizzato, e il primo a ricevere la raccomandazione del Ministero dell’Educazione. […] La locandina del film è eloquente: sotto la scritta “Annientamento dei cartoni animati dei cani americani!” sono raffigurati Roosvelt, Popeye e Betty Boop naufraghi in mezzo al mare mentre le loro corazzate affondano” (vedi pp. 13-14).
Il successo è tale da convincere la Marina Militare a sostenerlo per un secondo film, Momotaro – Umi no shinpei(Momotaro, il guerriero divino venuto dal mare, 1944), realizzato in precarie condizioni e con scarsa disponibilità di manodopera (gli animatori erano al fronte), ma il risultato è interessante perché sotto il profilo dei numeri questo seguito si propone come il primo vero kolossal dell’animazione giapponese con ben 50 mila disegni, 270 milioni di yen di costo e una durata di 79 minuti. Non è certo solo per un colpo di fortuna se, fra tante manifestazioni di patriottismo (i piccoli Mabo e Fuku-chan sono forse i personaggi animati più biricchini) e bizzarria nazionalista (si veda Nippon Banzai, 1943, tentativo di spiegare al giovane pubblico le motivazioni reali dell’entrata in guerra), si fa strada il delizioso Kumo to tulip (Il ragno e il tulipano, 1943) realizzato e diretto da Masaoka. La storia è quella di una coccinella dai tratti umani che viene insediata da un focoso ragno affinché la raggiunga sulla sua tela per danzare, dalle cui avanche è risparmiata grazie a un improvviso acquazzone.
Presentato il 15 aprile, dopo otto mesi di intenso lavoro, il breve film del regista (17 minuti) naturalmente è accolto con perplessità dai vertici militari, avendo Masaoka dimenticato i sani e imprescindibili valori della propaganda. Inoltre, è ancora Prandoni a scrivere, “per ironia della sorte, Kumo to tulip non incontrò i favori del Ministero dell’Educazione, che disapprovava la vittoria della coccinella “bianca” (come il nemico) sul ragno “nero” (come gli “indigeni” asiatici), in contrasto con i principi della Sfera di co-prosperità della grande Asia Orientale”. Ciononostante, il piccolo film di Kenzo Masaoka resta uno dei capolavori assoluti dell’animazione giapponese.
Con la resa incondizionata dell’Impero del Sol Levante il 15 agosto 1945, l’irresistibile ascesa del cartoon nipponico subisce un mezzo tracollo, soprattutto ideologico e ovviamente finanziario.
È da questo momento “storico” che la sua identità muterà pelle: come quella di un leggendario “serpente bianco”.
 

 
 
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