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La signora Riyoko Ikeda, secondo noi

È bastata l’uscita di “Elisabetta”, uno dei suoi lavori meno noti (rispetto all’apoteosi artistica che lo ha preceduto), per riaccendere l’entusiasmo dei lettori e dei fan di Riyoko Ikeda. Una che disegna shojo manga con la mano di una dea e la mente di una donna colta e intelligente. Dagli anni ’70 a oggi il suo lavoro è sempre stato condensato in due parole: Lady Oscar, la battagliera figura femminile che attraversa la Rivoluzione Francese e ci rimette il cuore e la vita. Tutto tranne la sua dignità di personaggio oltre la Storia. E grande festeggiata delle passate settimane. Chiara Bosio e Mario A. Rumor si contendono lo spazio con un doppio profilo della disegnatrice. Ovviamente, femminile-maschile…

 
 
DICE LUI
Il colpo di fulmine nasce da lontano. Lo zampino ce lo mette la TV, ovviamente. Riuscire a commuoversi per le vicende di una donna che si spaccia per uomo – con padre-crudele – e vive a stretto contatto con la capricciosa Maria Antonietta – quella delle brioche al popolo, quella dello scandalo della collana, quella che perderà letteralmente la testa per la Francia – significa aver trovato uno spiraglio di umanità in un personaggio dei cartoon. Cosa piuttosto insolita, ma per quelli che hanno vissuto la fase generazionale infarcita di “orfani & robot” ha più di un significato simbolico. Come per tantissimi altri emblemi vissuti attraverso il piccolo schermo, Riyoko Ikeda è la perfetta sconosciuta di cui scoprirai generalità (classe 1947, professione: disegnatrice, ma anche soprano) e indirizzo (Tokyo, con origini a Osaka) solo nel momento della crescita. A quel punto Lady Oscar e amici vari acquisteranno tutt’altro significato. C’è un’identità sessuale dietro che gioca con l’ambiguità. La signora lo farà spesso: è il punto d’onore di certo shojo manga. Guai a immaginare scenari dello spirito risoluti e distintivi, altrimenti che razza di “fumetto per ragazze” salterebbe fuori? Son cose che si imparano col tempo.
Già, il tempo: accessorio che accumula un suo valore se lo strato di polvere rimanda a pagine del passato lontanissime, quasi in disuso, ma efficaci per la macchina narrativa anni ’70 immaginata dalle primedonne del fumetto giapponese. Una volta che ci hai fatto l’abitudine, il confine tra oggi e uno sbiadito ieri diventa pane per i denti di qualunque bravo decifratore di codici shojo, “elementare” come direbbe Sherlock Holmes.
In tutto questo pandemonio di certezze e scoperte tardive, la signora Riyoko Ikeda è sempre parsa una cha ama fluttuare per suo conto, piuttosto che affiancarsi a una schiera di autrici-catalizzatrici di un genere e di un momento irripetibile nella storia dei manga. Anche coraggiosa nel prendere di petto una dimensione narrativa buona per studiosi e biografi (dall’immancabile Stefan Zweig ad Antonia Fraser) e farla diventare materia di intrattenimento. Qualcosa di leggermente diverso dagli istituti ottocenteschi di Keiko Takemiya, e qualcosa di estraneo alla stessa forma mentis dei manga, se è vero che la prima cosa che “Lady Oscar” riesce a fare è quella di conquistare l’attenzione del Takarazuka, compagnia teatral-musicale composta di sole donne. Certo, prima di lei, soltanto “La principessa Zaffiro” di Osamu Tezuka era entrata in simbiosi con quella realtà. Ma qui con la Ikeda siamo in una zona franca, un’autentica fabbrica di culti di massa con l’imperscrutabile Oscar François de Jarjayes disposto/a a cedere alle lusinghe della cultura pop (non erano stati emessi dei francobolli con il suo volto in Giappone? Non supera forse il milione di presenze il numero di spettatori conquistati dagli spettacoli del Takarazuka?) e barcamenarsi sulla via di clonazioni di idee e personaggi che prendono vita altrove, non soltanto nei volumetti: attrici come Mayo Suzukaze e Mira Anju, oppure Catriona McColl nella versione cinematografica di Jacques Demy, altro non sono che emanazioni viventi di una stessa entità melodrammatica. E su questo terreno Riyoko Ikeda si porta dietro una estensione vocale che si sposa bene a quella che diventerà la sua seconda vita, quella della musica lirica.
Nei suoi fumetti, uno più affascinante dell’altro, il bagliore catartico si combina sempre con fugaci ombre scure che sfrecciano sui volti bellissimi, prima ancora di transitare in quell’universo dialettico che sono i grandi occhi dello shojo manga. È la forza del dramma, gente. Una forza che invade l’ordinarietà della vita e, sebbene smorzata da occasionali esplosioni comiche, appare così nitido da scivolare sulla pelle di personaggi che magari non avrebbero nulla da raccontare al grande pubblico. Poi, dipende da come vogliamo lasciarlo interferire questo dramma con l’esistenza di chi come Oscar, fin dalla nascita sembra essere marchiato da un destino non voluto ma rivissuto per desiderio di altri. La Ikeda non insegna nulla in proposito: l’ineluttabilità del destino è un evento più radicato di tanti altri, per questo non si fatica a credere all’esistenza stessa di quel personaggio; così come sarà sempre più facile nei suoi lavori accettare come fatto compiuto un entourage di figure femminili che tradiscono ben altro aplomb. In “Caro fratello…” entriamo in possesso di prove soddisfacenti in tal senso e ancora una volta è la TV a giocare un ruolo determinante con una serie animata straordinaria, dove i richiami simbolici e gli omaggi si smarriscono nella micidiale messa in scena voluta dal regista Osamu Dezaki, colui che aveva reso la seconda parte di “Lady Oscar” tanto avvincente e riuscita. Pure “La finestra di Orpheus” è sufficientemente prodigo di suggestioni che marcano stretto. Ma si vede bene che non è soltanto lì, a quel traguardo, che la Ikeda vuole fermarsi. In lei c’è una strepitosa vocazione a raccontare una storia che si perde nel tempo, fin dai giorni dell’esordio alla fine degli anni ’60, quando era giovanissima studentessa di filosofia ammaliata da Tezuka e dal tesoro stilistico custodito nelle sue opere iniziando un miracoloso percorso come disegnatrice.
Non per tutte le signore dello shojo è facile in quel periodo. C’è il rischio di subappaltare modalità di disegno tra colleghe o di apparire perfino troppo devote agli insegnamenti del Dio dei manga. È un mondo aperto e chiuso al tempo stesso. La strada della libertà Riyoko se la sceglie nel momento stesso in cui piomba in un passato che non è il suo, donando respiro vitale a una donna sul cui corpo ogni lettore sarà in grado di proiettare la propria identità sessuale. A piacimento, s’intende. È il dono più prezioso che potesse fare all’universo dei fumetti. Perché non sta né da una parte, né dall’altra. Oscar è forse uno dei pochi personaggi di manga e anime a ondeggiare in un limbo gnoseologico fatto di scelte, cedimenti e risolutivi atti di coraggio che la costringono a fronteggiare tutto e tutti. E soprattutto: quando è donna è strepitosamente donna (pure Fersen se ne accorge) e quando è uomo lo è meglio di qualunque uomo. Capito il concetto?
Magari si spiega anche così la tenacia con la quale la disegnatrice continua a risiedere nel tempo passato, scegliendo personaggi che di ordinario potrebbero avere soltanto il nome riuscendo a infilarsi fra le pieghe della Storia o diventandone essi stessi dei simulacri come quella Elisabetta I Tudor che “sposò la patria” raccontata dalla matita dell’allieva Erika Miyamoto. In mezzo possiamo infilarci di tutto: l’addio della scena “fumettata” per quella cantata, il ritorno di Lady Oscar in miniatura e per scopi ludici. Fino alla prova massima: riuscire a tradurre in vignette la prosa perfetta e incantatrice di Yukio Mishima.
 
Ci piace perché:
Riyoko Ikeda è unica. Inossidabile. A prova di imitazione, non fosse per le allieve e le assistenti che devono – per contratto – riciclare uno stile e bilanciare la credibilità per mantenere intatto un ideale narrativo ed estetico. Piace la sua irruenza dentro i confini della Storia, dove si vive e si muore per alta concentrazione d’amore o di passioni non ricambiate. Riyoko Ikeda ci piace perché è la più musicale delle artiste shojo, una capacissima a comporre su vignette fatte di silenzi e improvvise esplosioni tonali. Trascinata dalla forza del dramma ma con dimensioni umane e a portata di qualunque sguardo. Una che “assedia” senza realmente saperlo.
 
 
DICE LEI
Riyoko Ikeda nasce a Osaka nel 1947 e si trasferisce a Tokio negli anni ’60 per studiare filosofia all’Università, ma non si laurea perché la sua passione per il fumetto prende il sopravvento su tutto, anche sull’amore per la lirica alla quale si dedicherà anima e corpo molto più tardi, diplomandosi in canto al Conservatorio solo sette anni fa, nel 2000.
Prima di sviluppare quel tratto e quella descrittività che contraddistinguono le sue opere più famose, la Ikeda trae ispirazione dal maestro Osamu Tezuka con il quale viene in contatto proprio durante gli anni dell’Università. Dopo alcuni racconti brevi (La ragazza della casa delle rose, 1967) pubblica, nel 1972, quella che sarà per sempre la sua opera di maggior successo: “Versailles No Bara” ossia “Lady Oscar”, ispirato dalla biografia storica di Stefan Zweig sulla regina Maria Antonietta. Non fu facile, a quel tempo, per l’autrice convincere la casa editrice Shueisha a pubblicarla perché un’ambientazione storica non era, secondo loro, adatta a uno shojo manga, un manga per ragazze. Tuttavia la caparbietà della Ikeda ebbe la meglio. E per fortuna, possiamo aggiungere, visto il più che trentennale successo del fumetto e poi della serie animata, per non parlare di tutto il resto: film dal vivo, gadget e libro.
In realtà al maestro Tezuka più che il tratto, la Ikeda deve alcuni caratteri del personaggio principale della sua serie di maggior successo, Lady Oscar: come la principessa Zaffiro era stata costretta a fingersi principe per poter accedere al trono paterno, così Oscar deve negare la sua femminilità per obbedire agli ordini paterni, che la vogliono comandante delle guardie del re di Francia, un ruolo inusuale e inadatto a una ragazza dell’epoca.  
Oscar de Jarjayes è già, in tutto e per tutto, un personaggio: simbolo della Ikeda, e vive in un universo particolare, creato per lei e per tutti gli altri personaggi, un universo a parte popolato da eroine senza macchia, coraggiose eppure delicate, forti ma inclini alla morte, dominate da passioni irreprimibili, bellissime e irraggiungibili.
E come una catena inarrestabile ognuno dei personaggi preferiti dell’autrice ne crea un altro, uno simile o meglio una simile, che vivrà e si muoverà in un altro momento storico. Così troviamo i riflessi di Oscar e Andrè (uno dei pochi personaggi maschili degni di nota) nella sua seconda opera di maggior rilievo, “Caro Fratello”, edito nel 1973. I personaggi cui ci riferiamo sono Saint Just e il principe Kaoru, due ragazze con travagliate storie alle spalle e obiettivi diversi nella vita: la prima dedita al culto e al desiderio per la morte, tanto da vivere quasi esclusivamente di medicinali, l’altra attaccata alla vita, ma malata molto gravemente.
Se prendiamo in considerazione Oscar e Saint Just, possiamo notarne la grande affinità. A parte l’innegabile somiglianza, i lunghi capelli biondi, il fisico longilineo, addirittura sottile, l’altezza dalla quale dominano il resto dell’umanità, le dita lunghissime che accarezzano soavemente vari strumenti musicali, entrambe sembrano arrivare da un altro mondo, lontano e incontaminato e non possono fare a meno di toccare profondamente chi si trova loro accanto. La Ikeda non ha voluto parlarci certo di persone goffe o di storie banali, ma ci ha trascinati nel mondo di quelle persone la cui sola presenza riesce a riempire una stanza, a far desiderare agli altri di non essere lasciati soli, ma di poter rimanere sempre in loro compagnia, sicuri che avranno tanto da imparare, e una luce riflessa di cui godere.
Entrambe poi si muovono sullo sfondo di contesti eccezionali: la Corte e la Rivoluzione Francese per Oscar, un esclusivo club in un’altrettanto esclusivo liceo giapponese, dove si entra solo se in possesso di ben determinati requisiti fisici (la bellezza prima di tutto) e sociali (la ricchezza e la nobiltà dopo) per Saint Just. La loro bellezza e il loro fulgore, poi, sono tali da far innamorare di loro uomini e donne, come accadeva ad Afrodite, dea greca della bellezza. Infatti, in loro maschile e femminile si confondono e spesso vengono rappresentate come dee greche, per comunicarci quali sono le sensazioni che provocano in chi le circonda, in una simbologia molto cara all’autrice.
Se c’è un punto nel quale le due donne si differenziano è il loro approccio alla vita: mentre la prima si dimostra sempre forte, combattiva, e invoca la morte solo per lenire il dolore per la perdita di Andrè, la seconda rinuncia a vivere la propria vita da subito, senza neanche provare a lottare.
Tuttavia, quasi per ricordarci che siamo in un mondo di fantasia e che in realtà non bisogna prendere tutto sul serio, ritroviamo qualche volta Oscar, Saint Just, Kaoru o Andrè in pose ridicole, stilizzati, addirittura impacciati, travolti da improvvise tragicomiche situazioni.
La Ikeda, da sempre molto interessata al lato psicologico dei suoi personaggi, ha insistito in maniera quasi maniacale sulla loro ambiguità sessuale, costringendoli con gli eventi a dissimulare un sesso non proprio, come accade anche nel successivo “La finestra di Orpheus” (1975) in cui una ragazza si finge maschio per poter accedere alla ricca eredità paterna in barba alle sorellastre, e diventando Julius Von Alensmeier. In questo manga appare con prepotenza la musica, la seconda grande passione della Ikeda, che prende forma tangibile nel Conservatorio dove si svolge la storia, temporalmente posta tra XIX e XX secolo, con la Rivoluzione Russa e la Prima Guerra Mondiale a fare da infuocato sfondo.
La Storia, per la Ikeda, non è soltanto un pretesto per mostrare raffinati costumi d’epoca o modi ineccepibili, ma è sentita e vissuta, e il lettore ne è fortemente partecipe, così come lo è l’autrice stessa. Usando un tempo passato e le grandi personalità storiche la disegnatrice ha più facilità a incorniciare i suoi personaggi con quell’aurea divina che li contraddistingue, e può piegare a proprio piacimento gli eventi anche senza rispettare alla lettera quello che accadde. Parlare di Storia è anche un modo originale di ritirare in ballo quei personaggi a cui è palesemente più affezionata, come Oscar, che incontra Napoleone in “Il glorioso Napoleone – Eroica” (1987) e Caterina II di Russia in “Caterina” del 1982.
Ma Oscar torna anche ne “Le storie gotiche” del 1984, quattro storie tra l’horror e il thriller poste a circa metà dell’opera “Versailles No Bara”, che però non hanno soddisfatto i fan a causa della mutazione nel disegno a cui tutti erano ormai abituati. Non si può dire che sia migliorato o peggiorato, ma solo che sia cambiato così come era accaduto in “Orpheus” a circa metà del suo svolgimento. Forse perché le cose non possono rimanere sempre uguali…
Negli ultimi anni la signora Ikeda, dopo il matrimonio nel 1999, si è dedicata molto al canto e ha inciso ben due Cd: “Lovely Songs Memory Drawings” e “Parfums Musicaux de Versailles” (tanto per rimanere in tema) dove canta come soprano. Non disegna quasi più i suoi manga, ma lascia l’arduo compito alla sua ex allieva Erika Miyamoto, dedicandosi “solo” alla sceneggiatura.
 
Ci piace perché:
Ha saputo primeggiare in un mondo che negli anni ‘70 era prettamente maschile, quello del manga, e lo ha fatto senza frequentare scuole di disegno, contando solo sul proprio talento e su quella capacità di osservazione che contraddistingue le persone possedute da una certa genialità. Ha saputo, cioè, ispirarsi senza imitare, fino a cogliere quella scintilla di originalità che è possibile trarre solo da una lunga osservazione degli altri, unita a una propria e forte inclinazione personale, capace di plasmare ciò che si è appreso.
Inoltre, è stata in grado di creare per i suoi personaggi un universo chiuso, femminile e autosufficiente, dove gli uomini sono quasi accessori e raramente fanno bella figura in rapporto alle eroine, e dove i sessi spesso si fondono e si mischiano, dando vita a creature che camminano nell’ambiguità. In tal modo ha anticipato di trent’anni l’odierna tendenza all’ambiguità sessuale soprattutto femminile che è facilmente rintracciabile nel cinema, nella musica, negli spot e nelle serie televisive di oggi (l’esempio più lampante: la serie americana “The L Word”).
 
Lady Oscar, l’episodio 41 e tutto il resto
Quasi a voler rivendicare un diritto celebrativo in più, ecco qualche nota sul famoso e famigerato “Episodio 41” della serie “Lady Oscar”. Mai apparso in Italia. Non è abitudine dei programmatori italiani giocare di sponda con la messa in onda di un serial a cartoni. Figuriamoci quindi se, dopo l’apoteosi strappalacrime con madamigella Oscar morente con la furia del popolo a sventrare a cannonate la Bastiglia, era immaginabile tornare indietro nel tempo con un riassunto della serie. Perché l’episodio 41 è questo. Ma visto in ottica femminile, giacché tutta la prima, brevissima parte è dedicata alle “donne” dell’anime: da Oscar a Maria Antonietta, dalla Pompadour alla Polignac (e figlia suicida), dalle plebee Rosalie e Jeanne de La Motte, antitetiche come il giorno e la notte. Tutto è prelevato dagli episodi con retrogusto psicanalitico: l’avvenenza eroica di madamigella Oscar e il suo forte ascendente sulla Regina, giovinetta e tutta occhi; l’ambiguità della Polignac e il suo dolore per la perdita della figlia; la vacuità di Rosalie e l’ultimo afflato sentimentale di Jeanne, quella dello “scandalo della collana”, accanto al marito.
Il resto poi diventa cronaca di un’altalena emotiva che vede la protagonista fiero capitano, quindi splendida dama accerchiata dalle sfavillanti luci di Versailles (ma, finalmente, per qualche istante fra le braccia dell’amato Fersen), di nuovo soldato senza appello sofferente e tradito dall’amore. C’è tempo per tutto: la disperazione, la fatale comprensione dei sentimenti che per lei nutre Andrè, la fuga dall’aristocrazia e da Maria Antonietta. Fino a quel giorno di luglio 1789 in cui i due si ritroveranno nella passione e nella morte.
A questa imperdibile chicca per estimatori si aggiunge or ora la controversa lavorazione di un nuovo anime (per il cinema) che Toei Animation starebbe realizzando tra video esclusivi presentati al “Tokyo Anime Fair 2007” (nient’altro che una clip di pose ad hoc, molto musicale) e l’insoddisfazione della Ikeda. Dio solo sa se ci sarà un proseguo.
In aggiunta ci sono stati i festeggiamenti di questo singolare compleanno di Lady Oscar che sono diventati materia per un viaggio indietro nel tempo, come dimostrato dalla Mostra realizzata da Yamato Video durante la kermesse milanese di “Cartoomics”. Dal mese di gennaio è inoltre disponibile un bellissimo piccolo libro edito da Adelphi (Biblioteca Minima) e scritto da Benedetta Craveri dal titolo “Maria Antonietta e lo scandalo della collana” (quarta edizione). Un resoconto scientificamente appetibile e ben raccontato che prova a far luce sulla celebre vicenda che affondò per sempre la popolarità di Maria Antonietta.
Dunque: visto quanto si può imparare da un cartone animato? [MaRu]

 
 
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