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Katsuhiro Otomo

In attesa di ammirare “Project Freedom” (2007), suo ultimo lavoro animato, questo numero di «MAN·GA!» si occupa di un artista che nei giorni dell’esordio ha suscitato invidia allo stesso dio dei manga Osamu Tezuka, diventando il numero uno agli occhi della critica e del pubblico. Erano i primi anni ’80 e Katsuhiro Otomo, guardando ai fumetti occidentali, riscrisse a modo suo la grafia di un genere di intrattenimento conservatore e chiuso in se stesso. Poi è venuta l’animazione e anche qui è successo il finimondo, perché Otomo è colui che ha reso gli anime davvero celebri in Occidente grazie alla forza persuasiva del kolossal “Akira”. Storia di un giovane che sognava in cinemascope ed è diventato l’artista che desiderava essere.
 
La strada per la Città Vecchia
Che Katsuhiro Otomo possa in qualche misura presenziare in un paradiso dei fumettisti è ancora da dimostrare. Piuttosto si meriterà un purgatorio arcano, stretto tra bugigattoli maleodoranti e geometrie kubrickiane: tutto intorno, molto probabilmente, il vuoto, inteso come una sorta di sottrazione di tutto ciò che è credibile, concreto e rassicurante. Che Katsuhiro Otomo con il suo sguardo evanescente, le risposte evasive e l’insopprimibile narcisismo sia in possesso delle giuste credenziali per rappresentare l’empireo del fumetto giapponese (con una vocazione a leggere coerentemente i contorni dei comics occidentali) è dimostrato da un torrenziale flusso di immagini, balloons e corpi in movimento. Che “Akira” di Katsuhiro Otomo infine, sia stata la corsia preferenziale lungo la quale è sfrecciato il nome del suo autore per sostare ai margini del mondo occidentale, è ormai una certezza matematica, giacché il successo di un disegnatore si conta soprattutto sul numero di copie vendute. Meno banale questo riscontro di dati lo diventa quando ci si rende improvvisamente conto che un solo fumetto giapponese è apparso per noi occidentali un sollecito interlocutore, capace di spronare l’irrequieto mercato dei comics e del cinema d’animazione. Intermediario ostinatamente diabolico e mellifluo, Otomo ha posseduto per lungo tempo un tocco faustiano, desideroso di astrarre lo sguardo per affogarlo in un turpiloquio dell’assurdo. “Ai confini della realtà”? Può essere (o non essere). C’è da giurare che il teatrino di questo autore abbia trasformato gli eroi di carta (e non solo quelli) in balocchi con abbreviato rito distruttivo, sullo sfondo privilegiato di suggestioni a metà tra il Requiem e il Teatro del Nô (meglio se contrappuntate dalla musica di Geinoh Yamashiro composta per il film “Akira”).
Nell’apocalisse del giorno dopo, Otomo ha sempre sferrato un attacco a quella splendida parodia animale che è l’uomo profanandone la carne, amministrata come corpo da distruggere o come banale corpo libidinoso. E per fare questo ha avuto bisogno di un contesto sociale da rendere credibile, sezionando i totem del vivere civile o iscrivendo i suoi feticci anti-eroici in calce a un mondo corrotto e politicamente scorretto. Una realtà umana che esibisce all’apparenza credenziali dignitose e invece si sdoppia, magari in un futuro da allucinazione collettiva con un presente travestito da passato, ma sempre ai confini della Storia.
Quella di Katsuhiro Otomo ha inizio il 14 aprile 1954 nella Prefettura di Miyagi: un ritaglio rurale e agricolo a quattrocento chilometri da Tokyo, dove egli cresce a Tome-gun, poco più a nord. Nessun languore da citizen kane qui, tanto meno agganci mnemonici alla rosebud. Il ragazzino Otomo è un tipo attempato a cui piace disegnare, stupire i compagni di scuola con il suo stile acerbo e affrontare una rivista sperimentale intitolata «COM», cui è di solito legato il nome di Osamu Tezuka. Ma quando varca la soglia della scuola superiore, pure il cinema si intromette tra le passioni ed egli non esita a passare anche tre ore di viaggio in treno pur di raggiungere la città di Sendai, dove trascorre interi weekend nutrendosi di “visioni”: soprattutto di cinema americano. Risoluto a non proseguire gli studi e ad abbandonare la provincia per la caotica Capitale, Otomo sogna di diventare un professionista del fumetto e si inventa uno stile di disegno inedito e anticonvenzionale. La fortuna arride ai prodi. Perché nel 1973, a soli diciannove anni, debutta sulle pagine della rivista «Manga Action Zokan» con tre brevi storie a fumetti ispirate a Edgar Allan Poe, Mark Twain e al Prosper Merimée di “Matteo Falcone”, con un’avventura pubblicata il 4 ottobre e intitolata “Jyu-sei” (o A gun report). La professione prende a sbocciare grazie a un provvidenziale aggancio ottenuto presso la casa editrice Futabasha (abituata a lanciarsi in spericolate pubblicazioni controcorrente: basti pensare al “Lupin III” di Monkey Punch iniziato nel 1967 o al popolare “Jarinko Chie” di Etsumi Haruki) che gli pubblica oltre un centinaio di brevi racconti che egli poi travaserà in fortunate antologie. “Sayonara Nippon” (1982) uno dei primi volumi a raggiungere gli scaffali delle librerie, propone ad esempio la storia di un gruppo rock (East of the sun, west of the moon, 1979), quella di un aspirante judoka che si trasferisce a New York (Sayonara Nippon, appunto, 1977-78: resa ancor più celebre dalla copertina del volume, raffigurante una gigantesca balena bianca distesa su Manhattan), il racconto “Seija ga machi ni yattekuru” (I santi arrivano in città, 1979) incentrato sulla figura di un discografico di successo che si trova a dover scegliere tra gli interessi dello studio e l’amicizia per alcuni squattrinati amici jazzisti; infine “Eiso satsujin jiken” (Omicidio a casa A., 1980) che si immerge blandamente in un clima surreale, seguendo la paradossale avventura di un ragazzo che si convince d’aver commesso un omicidio per la sola ragione di non riuscire a ricordare un alibi che lo possa scagionare. Frattanto ancora nel ’79 gli capita di disegnare una storia a fumetti più lunga del normale, “Fire Ball” (che resterà incompiuta), ispirata a una canzone dei Deep Purple. Raccontando la storia di un avanzatissimo computer e di esperimenti illeciti compiuti ai danni di un uomo dotato di poteri extrasensoriali, Otomo compie il primo passo che lo avvicinerà a soggetti dichiaratamente fantastici, introducendo quel clima aleatorio e squilibrato che farà la fortuna di “Akira”. Con “Fire Ball” si appropria già di uno stile in sincero antagonismo con i lavori precedenti, sostantivando un più efficace realismo figurativo (ambienti e personaggi) ed esercitandosi su climax narrativi più audaci. Quasi in disparte si intromette poi l’inquietante parabola di “Sogni di bambini” (in originale “Domu”), un manga di duecento pagine sviluppato a partire dal gennaio 1980 e protrattosi sulle pagine di un mensile per due anni, in cui emerge il suo assoluto cinismo. Il pretesto è nuovamente fantastico e, come racconta lo stesso Otomo, nasce dal desiderio di replicare in un’opera a fumetti tutte le suggestioni vissute a Tokyo negli anni incerti dell’esordio come artista; e in secondo luogo restituire sulle tavole le stesse emozioni suscitate dalla visione di un film come “L’esorcista” (1973) di William Friedkin. Una volta riveduto e corretto, “Domu” conquista l’attenzione di pubblico e critica. Il primo adulto e colto, premierà il fumetto con oltre 500 mila copie vendute; la seconda onorerà l’eclettismo di Otomo offrendogli nel 1983 il “Japan Science Fiction Grand Prix Award” che premiava per la prima volta un fumetto. Queste fortunate circostanze garantiscono all’autore un coinvolgimento in prima persona nell’opinione pubblica e costringono il conservatore mondo del fumetto a riconoscere che la promessa di Otomo, autoindirizzatasi in gioventù, era diventata un improvviso manifesto artistico e ideologico. Se da principio egli possedeva la chiara idea di come sviluppare l’intreccio di “Domu”, non sapeva però dove ambientarlo: un articolo di cronaca sbirciato distrattamente su un quotidiano, sul quale legge un preoccupante incremento dei suicidi commessi dall’alto dei celebri condomini-alveari delle periferie di Tokyo (i danchi), gli apre la strada. È un ottimo spunto per il fumetto. Tra l’altro in “Domu” si riaffaccia l’escamotage dei poteri extrasensoriali, ricondotti ai misteriosi suicidi-omicidi che insanguinano le pagine del fumetto, con casi di persone apparentemente normali che si gettano indisturbate dall’ultimo piano di questi poderosi edifici, senza una ragionevole spiegazione. Con le vittime sparisce anche un oggetto a loro particolarmente caro (un berretto, un giocattolo, un portafortuna) che finisce regolarmente nelle mani di un taciturno vecchietto. La polizia inizia a indagare e un barlume di chiarezza s’affaccia quando nella storia fa il suo ingresso un “perturbante” inaspettato: una ragazzina dotata di poteri paranormali che individua il responsabile al primo sguardo, intimandogli di non proseguire oltre. Come “Fire Ball”, anche “Sogni di bambini” subappalta con largo anticipo ogni frammento visivo e narrativo che servirà a gettare le basi di “Akira”. Un manga, quest’ultimo, che è subito invitato nell’accomodante club dei capolavori, ma che in tutta franchezza evoca l’idea di un’opera maudite nata sulla scorta di un fumetto prematuramente morto (Fire Ball) a cui evidentemente non era stata data l’estrema unzione.
Il 6 dicembre 1982 Katsuhiro Otomo sulle pagine di «Young Magazine», a partire da un solco di morte che devasta il pavimento postmoderno di Tokyo, accoglie una Terza Guerra Mondiale che dura l’attimo di un bagliore. Il risveglio avviene a Neo-Tokyo nell’anno 2030, e ci si accorge che in fin dei conti nulla è cambiato (l’uomo non impara dalla Storia, la interpreta…), tanto è vero che una voragine mnemonica esiste ancora e a illuminarcela sono i fari delle moto del protagonista Kaneda e dei compagni bosozoku (sorta di motociclisti-esistenzial-teppisti). Inizia in questo modo il manga di “Akira” che, nonostante le tenebre dell’apocalisse, indica il primo passo di una storia (duecento le pagine inizialmente preventivate) adoperata appositamente dagli editor per lanciare la nuova pubblicazione. Al traguardo finale, invece, “Akira” raggiungerà il considerevole traguardo delle duemila pagine di fumetto e sei volumi a ospitarne le avventure (dopo undici anni di lavoro, comprese tutte le ristrutturazioni e le correzioni di Otomo), premiate da oltre tre milioni di copie vendute nel solo Giappone. Comunque, Kaneda e soci non sono lì per caso. La loro presenza ai margini di una vecchia autostrada, segata in due dall’esplosione, è un aggancio profetico al mondo dei morti e della memoria, tant’è che a immolarsi viene scelto il debole Tetsuo, sequestrato dall’esercito e sottoposto a controlli medici sospetti. Cosa stiano macchinando i militari è un segreto custodito in un’ala di ospedale dove vive un gruppetto di bambini-mutanti, farmaco dipendenti e dal volto invecchiato. Kaneda ne è venuto a conoscenza ed è a sua volta in ansia per l’amico Tetsuo. L’incontro con la bellissima Key, appartenente a un gruppo di dissidenti politici guidati da una veggente, non è altro che un pezzo in più dell’intricato puzzle della vicenda, in cui si alternano sulla scena complotti per ottenere il potere politico, bande di teppisti ormai irrecuperabili dalla società e una nuova esplosione nucleare che rende irriconoscibile la città di Tokyo. In margine a tutto ciò sopravvive il mito di Akira che, oltre a dare il titolo al fumetto, è un pericoloso potenziale distruttivo.
Interrotto più volte dal suo autore, anche per scadenze produttive piuttosto rilevanti (l’esordio nei lidi dell’animazione, le prime regie cinematografiche), “Akira” ha trovato il suo this is the end soltanto nel 1993, quando l’occidentalizzazione del fumetto era ormai avviata da tempo: vedi gli Stati Uniti ad esempio, dove il mercato del manga nipponico si appoggiava alla vivacità di importanti case editrici. In totale accordo con Katsuhiro Otomo e la casa editrice Kodansha, la versione americana adotterà il ribaltamento del senso di lettura originale  e l’uso del colore, con un andamento di 64 pagine mensili secondo la tradizione dei comics americani. Se l’operazione ha successo lo si deve in particolar modo alla perizia cromatica di Steve Oliff, collaboratore dell’artista giapponese, col quale realizzerà anche la colorazione di “Kanojo no omoide” (Ricordi di una donna). Confortati dal successo del fumetto e dal clamore frattanto suscitato dal film, “Akira” raggiunge il suolo europeo grazie all’editore francese Glénat nel marzo 1990, tramite una rete di agenzie operanti anche in Italia e Spagna. Glénat Italia però non completerà l’operazione, e il progetto editoriale verrà concluso soltanto nel 1997 grazie ai due volumetti editi da Marvel Italia che nel novembre 1998 stampa un’edizione in bianco e nero fedele all’originale giapponese. Versione definitiva di un maelstrom senza pace. L’indomani della sua proclamazione come disegnatore di respiro internazionale, Otomo si ritrova subito circondato dal miraggio del cinema: indipendente e assolutista quando coinvolto in allucinanti live-action; ricercato, sperimentale e dispendioso quando impegnato a salvaguardare la Japanimation dalla serialità televisiva. L’esordio nel 1983 è duplice: da un lato viene invitato dall’editore Haruki Kadokawa a far parte dello staff del kolossal d’animazione “Harmageddon – La guerra contro Genma” in qualità di character designer; dall’altro con “Ju wo warera ni” (A noi i fucili, a noi la libertà) firma il suo primo lungometraggio in 16mm. in veste di sceneggiatore, produttore e regista. Di film dal vivo risentiremo parlare nel 1991 con “World Apartment Horror” (di cui esiste anche una versione a fumetti), con una serie di racconti prestati al cinema e firmati dal celebre e osannato Sogo Ishii (Snuffle, 1981), con il film “So what” (1988) di Naoto Yamakawa (So what, 1988) e infine il recente “Mushishi” (2006) presentato al Festival di Venezia.
Gli anime restano tuttavia il luogo d’elezione di questo attempato “visionario” e infatti nel 1987 era uscito fuori il cortometraggio “Interrompete i lavori!” (Koji chushi meirei) incapsulato nell’omnibus di tre episodi “Manie Manie – I racconti del labirinto”. C’è, nella storia dell’ingegnere Sugioka chiamato a sovrintendere un cantiere smarrito in un’immaginaria giungla di un’immaginaria repubblica e dominato dai robot, un feroce lesionismo ai danni del futuro e del progresso tecnologico: temi cari all’autore prima, durante e dopo l’intrusione di “Akira”, che nel bene e nel male finiscono ancora per fornire una dote micidiale a Otomo da svendere al genere umano. Più che sguardi dubbiosi e guardinghi, le sue sono escalation incredule gettate in pasto a un mondo impazzito e disordinato (il cantiere), nascosto da un verde Eden affogato da una pioggia infernale, mentre il tempo scorre scandito da lavori in progress senza senso e dal graduale logorio dei robot fulminati dall’usura. D’altra parte il “tutto Otomo minuto per minuto” sta già qui: dall’isterismo dilagante dei personaggi alla sublimazione di un futuro da abbattere (o sconnettere: come succede nel disperato epilogo), fino a quella ricchezza formale che suggerisce rimpianti solipsistici: ovvero, un “Interrompete i lavori!” lungo quanto un film.
 
Akira
Quando in realtà ci si approssima alla banlieue notturna del “bambino dormiente” di “Akira” tutto assume – nonostante l’invalicabile complessità della trama – una prospettiva più netta e definitiva del suo pensiero. Akira-lungometraggio è entità “altra”, quasi aliena, rispetto ad Akira-manga (una sorte che tocca in primis gran parte della Japanimation derivata da fumetti, ma trabocca soprattutto in opere di rilievo critico come “Nausicaä della valle del vento” di Hayao Miyazaki o, ancora, “Ghost in the shell” di Mamoru Oshii che vive di un imprinting estetico e narrativo tutto suo). Akira-lungometraggio è un corpo cinetico emblematico e storico, in quanto antepone alla dimensione narrativa un atteggiamento forfettario che se ne infischia del metodo e del pubblico per assurgere giustamente a icona di animazione "mai vista”, non soltanto in ambito locale ma addirittura mondiale. Akira versus Disney? Può darsi. Tanto nei contenuti quanto nella forma. Poiché il film-non-film di Katsuhiro Otomo è un mostro cinematografico (dura 125 minuti ma potrebbe benissimo stiracchiarsi di più…) con un amletico dubbio esistenziale, secondo modalità di trattamento che Otomo ha imbastito già ai tempi del fumetto “Fire Ball”. Esiste perché è pesante (7 milioni di dollari di “gravoso lavoro”) e da urlo: “[Akira] è una graffiante avventura fantascientifica a tinte forti, Blade runner e Total Recall in animazione”, chiosava entusiasta l’allora press-kit del film. Ma è pure materia evanescente, indaffarato com’è a cercare un contegno filmico che, visto senza particolari conoscenze dell’argomento, può lasciare adito a perplessità o a insoddisfazione per l’intreccio complicato o per l’insulso doppiaggio ricalcato dagli script americani . Infine è un film fortemente “corale”, dove emerge il fantasma del nakama (la coesione di gruppo tipica del mondo giapponese) e con esso il carisma di animatori come Takashi Nakamura (co-autore di “Manie Manie”), Yoshio Takeuchi (co-autore di “Space Adventure Cobra”), Hiroaki Sato (futuro regista di “Key the metal idol”) e Koji Morimoto, l’allievo numero uno dello stesso Otomo.
Ma poi c’è poi la scena – a inizio film – della fuga del bimbo ESP numero 26 condotto per mano da uno degli anarchici: i due sono braccati dai mastini della polizia che sgusciano via tra le auto in sosta, mentre l’inquadratura indugia su alcuni televisori esposti in vetrina che trasmettono spot di cibo per cani. Non è un ironico accostamento di senso, ma c’è il senso della “burla” perché, così breve, il frammento sembra diretto addirittura da un altro regista (Mamoru Oshii). Una magnifica ossessione cinefila facilmente spiegabile (il regista di “Ghost in the shell” ha una curiosa predilezione per i cani) e fatalmente colpevole nello sviare la paternità registica di Otomo. O almeno è quanto succedeva in tempi in cui le informazioni sugli anime erano quello che erano… 
E intanto: “Akira begins with an ending”. Lo decide Susan J. Napier, la studiosa americana che ha regalato al lungometraggio di Otomo una delle più significative letture degli ultimi tempi. Inizia sul grande schermo il 16 luglio 1988, giorno in cui scoppia questa Terza Guerra Mondiale ma che è anche il giorno scelto dalla produzione per la “prima” del film. Humor macabro? Forse. Ciò che la Napier non dice è che in quell’inizio non ci sta la fine di Tokyo e del mondo moderno, piuttosto c’è l’inconscia fine del cinema animato nazional-popolare, quello celebrato appena tre mesi prima con la prima visione di “Tonari no Totoro”. Nel canto funebre intonato dalla Napier Akira-lungometraggio è come un giocattolo acchiappa fantasmi di sociologica o antropologica deriva. Poi se in esso alcuni vedono un videogioco cyberpunk, altri magari preferiscono parlare di science fiction allo stato puro e la visione della studiosa americana assume davvero contorni più nitidi e perfettamente circolari. Soprattutto se a domare l’egocentrismo di Akira (“Io sono Tetsuo!” sentenzia sadicamente da qualche parte nel finale il giovane antagonista) viene chiamato in causa anche il “Godzilla” (1954) di Inoshiro Honda. Due suscettibili mutanti che non nascondono la propria origine distopica (e ideologia forse inconciliabile su un unico grande schermo) cui va riconosciuto – giusto per riacciuffare strilli pubblicitari d’antica data – che entrambi sono “figli della bomba”. 
Tuttavia in una “particolare ottica e campionatura”, afferma ancora Susan Napier, “[i due film] sono un’utile chiave di lettura per comprendere la moderna cultura giapponese”. Il punto di partenza di un simile approccio è la totale mancanza di una generale fiducia “costruttiva” da parte della fantascienza nipponica, nel cui ventre si annida invece una martellante istigazione a “immaginare” il disastro. Un’alternativa deleteria, imparentata con il tellurico “Big One” tanto temuto dal popolo del Sol Levante, che fornisce materiale utile a Otomo in quanto anche qui risiedono sacrosante idiosincrasie nei confronti del progresso, dell’ordine sociale e dell’onnipresenza della Macchina, già visto in “Interrompete i lavori!”. Quando lo sguardo si riappropria della visione, pochi attimi dopo il boato che annuncia la Terza Guerra Mondiale, Tokyo non esiste più (addio Palazzo Imperiale, addio linee ferroviarie che si intrufolano sopra e sotto la metropoli, addio Tokyo Tower). O meglio: essa è sommariamente sopravvissuta come luogo di “transizione”, e per questo attraversata da mini eserciti di bosozoku che esercitano il “loro” potere su un “territorio” inesistente; e sopravvive anche come luogo della memoria: di qui il timido approccio nei suoi confronti come “città vecchia”, dove a parafrasare una sua qualche valenza metatestuale nel film viene edificato l’enorme stadio olimpico al posto del “vasto cratere” ammirato nel fumetto. Inoltre la Neo-Tokyo del film appartiene a un altro tempo, il 2019, e si affanna subito a esibire il concentrato di alienazione globale che l’avvelena, prima ancora che il tema distopico si impossessi dell’attenzione generale. Visivamente la nuova capitale sorge sulle ceneri di “Metropolis” e “Blade Runner” (il trionfo di neon e insegne) e di suo ci mette l’ossessione misticheggiante per Shinjuku: quartiere di Tokyo che nella Japanimation è diventato un topos fantasmagorico, qualcosa di più di un irrinunciabile “luogo comune” (si vedano “La città delle bestie”, “Mimi wo sumaseba”, “X”); e c’è la concezione di Neo-Tokyo come città-edificio: una sorta di Babele moltiplicata per quante volte vuoi tu, pullulante di vita sociale e centro di tensioni terroristiche. La vicenda narrativa di “Akira” è di per sé un pretesto bello e buono: non potendo saccheggiare il manga che nel 1987 era ancora un work in progress, ufficiosamente ci si mette in testa di farlo cominciare con la gang di teppisti che viene accidentalmente a conoscenza di un’operazione militare, sperimentando sia le insidie del potere occulto sia quello “incontrollabile” del bambino dormiente (Akira), persino andando incontro all’inevitabile distruzione numero due della città per mano del debole Tetsuo. Ufficialmente invece, e sempre tenendo a mente l’analisi della Napier, la storia di “Akira” è un sublime intervento chirurgico a Neo-Tokyo, con quel suo cancro incurabile chiamato “alienazione collettiva”: un male che risparmia un solo personaggio del film, Kaneda, mentre un po’ tutti si lasciano infettare dal dubbio, dal sospetto e dal risentimento. Insomma, nessuno è buon cittadino di Neo-Tokyo se non è affetto da paranoia, se non nutre disprezzo per entità socialmente interdette (i bosozoku) o se non si sottomette a qualsivoglia intreccio cospirativo che la pellicola quasi fatica a mettere a fuoco (qual è ad esempio l’urgenza di rispolverare il “progetto Akira”, proprio non si sa). Kaneda al contrario pensa solo a istruire un corteggiamento gagliardo nei confronti della bella Key, studia un modo per tirarsi fuori dai guai e per liberare l’amico Tetsuo, senza badare a scrupoli di coscienza quando dovrà toglierlo di mezzo e vincerlo nello scontro finale. Il sottobosco genialmente adombrato da Otomo, sensibile al fascino dell’horror paranoide che salta fuori proprio dove meno te lo aspetti (ancora Tetsuo) e alla mostrificazione dell’individuo, completa la scena alienante del film per merito di alcuni ragazzini-ESP che sono la glorificazione “mutante” dell’infanzia. E qui vi restano: perché sono comunque bambini che vivono timori ancestrali, come la vista del sangue, e sono una sorta di “bimbi sperduti” custoditi dai militari in una cattedrale ludica alla Lewis Carroll dove non si cresce mai. Sostanziale inoltre l’analisi antropologica che emerge da alcuni temi lasciati a bollire dal regista: in “Akira” c’è uno sguardo preoccupato sul Giappone contemporaneo che pone in rilievo, confrontandoli nuovamente, la Società con la maiuscola e i giovani con la minuscola. Una contrapposizione che non esita a sacrificare il ceppo più debole, accusato in un modo o nell’altro di contravvenire alle regole. Persino nella società immaginata nel film si assorbe l’ansia per le nuove sette religiose (una delle quali inneggia alla resurrezione di “Akira”, ma avrà vita breve) e a reprimere con la forza ogni dissenso: un atto di violenza inaudita che Otomo ingigantisce nella nuvola dei fumogeni che avanza lungo una delle main street di Neo-Tokyo, donandole quella stessa informe oscenità che vedremo successivamente nella mutazione di Tetsuo. Colpevole quel paradiso tecnologico che non arriverà mai al capolinea. Succube del nichilismo di “Akira” che alla fine inghiotte quasi tutta la città ma poi tutto rigenera: come il plasma energetico del finale con la voce fuori campo di Tetsuo che annuncia chissà quale verità gnoseologica. E come in “Interrompete i lavori!” la teodicea formulata da Otomo non concede alternative all’uomo.
Casualmente è servito un altro lungometraggio abbacinato dall’iperrealismo tecnologico come “Ghost in the shell” per scalzare Otomo dal suo trono di cantore di una Japanimation in stile cyberpunk. Anche se egli resta per molti il cantore di un cinema “interrogativo” e lugubre. Col trascorrere degli anni e delle diverse esperienze produttive, pur senza ammainare il suo narcisismo intellettuale, Katsuhiro Otomo sembra aver finalmente capito che la più accomodante delle prospettive è quella dello spettacolo “puro”, tipo “Spriggan”. Oppure prendete “Steamboy” (2004), opera realizzata fondendo artigianato e tecnologie digitali, e ambientata nella città di Londra del XIX Secolo. Non sembra una scelta casuale: siamo in piena rivoluzione industriale, tra la locomotiva The Rocket e nere cattedrali del progresso, con un ragazzo come protagonista, cresciuto tra le mille invenzioni paterne. Un film che premia l’azione piuttosto che il pensiero. Così come la fatica live-action “Mushishi”, tratto da un fumetto piuttosto popolare, che diventa una sorta di barriera tra il (suo) cinema del passato e quello dell’immediato futuro.
 
Sayonara Nippon © 1981 Futabasha
Hansel to Gretel © 1981 CBS Sony Shuppan
Genma Taisen © 1983 Kadokawa/Haruki Jimusho
Robot Carnival © 1987 A.P.P.P./Bandai Visual
Akira © 1980 Kodansha
Akira © 1988 Mash Room/Akira Production Committee
Memories © 1995 Mash Room/Memories Production Committee
Steamboy © 2004 Bandai Visual/Steamboy Committee

 
 
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