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Recensioni

Tekkon Kinkreet, la cittā prende vita

Un progetto lungo sette anni partito in forma di pilot di cinque minuti con la supervisione di Koji Morimoto. Un giovane americano alla corte di Cartoonia che traffica con computer e software ma è pure uno straordinario e visionario artista. Un film di quasi due ore che trae origine da un manga prossimamente pubblicato anche in Italia. Tutto questo e molto di più è “Tekkon Kinkreet” diretto da Michael Arias e in uscita – per ora – solo sugli schermi francesi con il titolo “Amer Beton”. Dal Giappone, Matteo Boscarol ci racconta le meraviglie di uno dei migliori film animati del momento.  
 
Takaramachi (città - tesoro) è graficamente un accumulo di immagini, una babilonia dell’epoca Showa (1926-1989), sovraccarica di idoli, di mosaici, un coacervo di oggettistica d’ogni tipo, un Indostan dell’immaginazione completamente fuori controllo. Questo lo scenario dove si svolge l’azione di “Tekkon Kinkreet” (recentemente passato al Festival di Berlino), l’ultimo lavoro uscito dalla funambolica casa di produzione nipponica STUDIO 4°C, da ricordare almeno “Mind Game” del 2004, che qui si avvale della regia di Michael Arias, una delle menti responsabili del progetto “Animatrix”.
Ispirato dal manga omonimo di Taiyo Matsumoto, il film racconta la storia di due giovanissimi ragazzini di strada probabilmente orfani, Shiro (Bianco) e Kuro (Nero) rispettivamente di 11 e 14 anni. Due gatti randagi nell’intrico dell’enorme città, conosciuti infatti anche come neko (gatto/i in giapponese), e lo si può notare fin dalle prime battute del film dove con balzi iperbolici si spostano da un edificio all’altro, inseguiti/inseguitori in uno scontro con un’altra gang di ragazzi di strada. Queste scene d’azione che spaziano da una parte all’altra della città ci danno subito l’idea di che genere di posto sia Takaramachi, di come i due protagonisti siano completamente a loro agio nel caos urbano, che in qualche modo li ha generati. I due infatti ne rappresentano i due aspetti, le due anime diverse, come disegnato sulle loro magliette, lo yin e lo yang. Se Kuro è la parte più forte, l’adulto, il "fratello maggiore" della coppia, Shiro è il bambino, lo stupore infantile e quindi anche il lato innocente e poetico della vita. È quest’ultimo quello che più resta nella memoria dello spettatore, per la tenerezza da gatto selvatico, per la bellissima voce prestata dalla giovane attrice Yu Aoi e soprattutto per i momenti di surreale poeticità che squarciano gaiamente il ritmo del film, disegni infantili che inondano il cielo.
I due vivono in un relitto di macchina abbandonata in una zona desolata della città e non hanno particolari obblighi, men che meno quelli scolastici, l’unica cosa importante è scorrazzare per la città e viverne la caotica libertà. Ma grandi cambiamenti sono in arrivo, la polizia è in allerta per il ritorno del vecchio yakuza Nezumi (Topo) che però è un malavitoso vecchio stile, carico di romanticismo e nichilista fino all’autodistruzione. Anche lui come Shiro e Kuro è un figlio di Takaramachi e per questo si opporrà sino alla fine a ciò che rappresenta il vero pericolo per la città, il Nuovo che avanza, il sistema mafioso-capitalistico-imprenditoriale. Il viscido Hebi (Serpente) è infatti a capo di un organizzazione senza scrupoli che vuole trasformare Takaramachi in un enorme parco giochi, in un luna park scintillante, uccidendone cosi la storia, i mille vissuti quotidiani che le strade di una città possono raccontare. Così se Nezumi si considera ormai un pezzo da museo, uno scarto nel nuovo ordinamento mafioso, al contrario il suo braccio destro, il più giovane Kimura, indeciso fino all’ultimo finirà per andare con Hebi, almeno inizialmente. Chi non ci sta è Kuro che, rabbioso, decide di dichiarare guerra da solo alla nuova yakuza.
Se le prime sortite notturne del ragazzo danno esito positivo (riesce infatti a sconfiggere degli scagnozzi di Hebi), la situazione si fa critica quando tre killer professionisti vengono ingaggiati da Hebi. In un violento scontro con questi tre temibili avversari Kuro viene ferito e nel frattempo approfittando della situazione la polizia decide di prendere in custodia Shiro e portarlo in un luogo sicuro per proteggerlo.
Ma proprio l’assenza del piccolo undicenne fa letteralmente impazzire Kuro, che seguendo il destino scritto nel nome che porta, cade in un abisso di oscurità e perde l’equilibrio che gli era dato dalla presenza di Shiro; lo yin senza lo yang.
La disperazione lo fa andare in “berserk” e lo fa letteralmente diventare una macchina per uccidere, sfogando la sua demoniaca violenza su tutto e su tutti senza fare distinzioni. Proprio quando la città sembra essere sull’orlo del collasso, sopraffatta da tanta violenza, sarà Shiro a ribilanciare le energie di Takaramachi e di Kuro in un finale tutto da vedere, certamente non da comprendere. Senza svelare troppo basterà dire che le immagini esplodono o sarebbe meglio dire escono fuori dalla testa di Shiro per sublimare tutta la violenza e tutto il dolore passato in un cielo colorato a pastelli.
Insieme a “Paprika” di Satoshi Kon, “Tekkon Kinkreet” è il miglior film d’animazione del 2006, qui in Giappone è infatti uscito a dicembre dell’anno scorso, e senza dubbio il prodotto più riuscito finora dello STUDIO 4°C. Parte del merito va sicuramente a coloro che hanno realizzato graficamente Takaramachi, una delle città più memorabili dell’animazione, un accumulo pop in salsa Showa, una città dei balocchi impazzita che non si sviluppa né in verticale né in orizzontale ma bensì in densità, ogni inquadratura eccede ciò che può essere normalmente visto e ricordato. In una scena che si svolge all’interno dell’ufficio di polizia ad esempio, si vedono sullo sfondo statue di Tanuki, Bodhidharma, Ganesha, armature di samurai e innumerevoli altri suppellettili sud-asiatici: insomma una città che deborda.
Buona parte del successo del film va senz’altro anche a Michael Arias che ha saputo contenere questo eccesso di materiali, dando al tutto una certa misura poetica, evitando il rischio di esagerare con gli elementi surreali per cadere nel grottesco, cosa che era successa parzialmente con “Mind Game”. Al contrario qui si è riusciti a camminare sul filo del rasoio senza mai perdere di vista ciò che voleva esser detto e mostrato anche quando nelle scene finali la storia esplode. Ma è un delirio che è funzionale alla narrazione stessa.
 

Tekkon Kinkreet, un film fatto per amore

La prima volta che in Italia si parlò di “Tekkon Kinkreet”, «MAN·GA!» esisteva ancora su carta. Un po’ come quel progetto di film che per vedere il traguardo finale ha dovuto attendere un considerevole lasso di tempo. Sulla carta il film aveva la forma di un singolare pilot film denso di idee e promesse per il cinema animato dell’avvenire. Era il 1999 e sembrava che tutto fosse stabilito per arrivare ai 75 minuti di pellicola definitiva. In realtà le aspettative di allora e i mezzi non arrivarono a tanto e si sorride compiaciuti nel conteggiare oggi mezz’ora in più di materiale e un aspetto di poco differente dalla prova portata avanti da Koji Morimoto e Michael Arias per trovare nell’industria dei cartoon anche una sola speranza di poter terminare quel lavoro.
Dopo sette anni di sofferenza artistica, ma pure viscerale gioia nel plasmare quelle idee in animazione, la produttrice Eiko Tanaka sprizza orgoglio ed entusiasmo. Lei è la sola produttrice donna di anime di cui conosciamo le imprese, dai tempi dello Studio Ghibli alla fondazione di Studio 4°C e alla realizzazione di un film, “Mind Game” (2004), attorno al quale la stampa specializzata ha avuto modo di esprimersi in modo più che positivo. Il fumetto appartiene all’immaginario collettivo dal 1993, anno in cui fu pubblicato sulle pagine di «Weekly Big Comic Spirits» e vanta diverse edizioni all’estero, dove è apprezzato per lo stile innovativo e per la durezza del racconto. Da noi arriverà in autunno grazie a Kappa Edizioni. Farne un film significava confrontarsi con un’opera considerata da tutti i dipendenti dello Studio 4°C come “strepitosa e straordinaria”. Al punto di massima ebollizione estetica, chiunque sognava di rivedere nella pellicola le parti migliori del manga, atteggiamento pericoloso per chi è costretto per contratto a condensare il tutto in una entità di due ore. La parola ritardo è associata principalmente a due fatti: Koji Morimoto fa coppia fissa con Arias nei primi istanti di vita del progetto e sogna di realizzarlo tutto in 3D. Sogno infranto dall’implacabile verità delle cose: ricreare alla perfezione le emozioni e i sentimenti dei personaggi era un’impresa impossibile, anche per geni dell’animazione come loro. A questo si aggiunge la violenza di certe scene del fumetto che per finire in un film dovevano costringere a un lavoro di revisione e a un drastico passo indietro. Ma una volta riunito uno staff di Serie A, “Tekkon Kinkreet” inizia a vibrare di vita vera. Nessuno immagina cosa salterà fuori, ma le circostanze sono a loro favore pur intromettendosi talvolta collaborazioni esterne da sbrigare per l’amico Katsuhiro Otomo che sta – pure lui – portando avanti fra mille difficoltà “Steamboy” e per l’inarrestabile Morimoto, il quale prosegue nel frattempo a sfornare cortometraggi da urlo a getto continuo (vedi “Genius Party”). Michael Arias, il gaijin più popolare nell’industria animata grazie ai prodigi da lui inventati per Softimage e alla supervisione di “Animatrix”, appare subito uno amante del rischio e infatti chiede che a scrivere lo script sia l’americano Anthony Weintraub (pure per la colonna sonora sarà inflessibile arruolando il gruppo Plaid che atterrerà a Tokyo con un pacchetto di musiche già pronte per essere disfatte non appena visionato il girato). Il testo dello sceneggiatore non sarà vangelo, molte battute memorabili del fumetto si perdono per strada, e per correggere il tiro un ulteriore lavoro di storyboard servirà a riequilibrare tutto. Pure qui con sincronia perfetta dello staff: parti del film divise in dodici scene affidate a tre disegnatori per gli storyboard, che a loro volta passeranno il lavoro nelle mani di trenta animatori, capaci alla fine di portarsi a casa ben 1538 scene (cuts). Giusto per non svilire il monumento artistico che si sta creando per Taiyo Matsumoto, lo staff pensa a tutto nel dettaglio con foto scattate da Arias nel quartiere di Kichijoji per fornire un’idea di quella che sarà la città di Takaramichi e per calcolare distanze prospettiche, ombre e luci di una particolare ora del giorno che fasceranno la testa di uno dei personaggi nel corso del film e via elencando. Questo a parole. Nei fatti, prendete nota dei nomi di Shojiro Nishimi al chara design, Hiroaki Ando agli storyboard, Shinji Kimura all’art direction (impreziosita da guizzi artistici tutti suoi) e Takuma Sakamoto in veste di CGI director. Non sorprenda l’età di questi signori, quasi tutti trentenni, ma con un background che lascia senza parole. Uno che non è mai rimasto a corto di parole è proprio il disegnatore Matsumoto, fiducioso nel lavoro di “Mike” Arias, e ospite dello studio in un paio di occasioni, durante le quali sperava sempre che disegnatori e animatori chiedessero la sua opinione. Scherza Eiko Tanaka: “Alla fine ha deciso di starsene alla larga finché il film non fosse finito, tanta era l’attesa che lo faceva tribolare!”. [MaRu]
 
Scheda del film
TEKKON KINKREET
Soggetto: Taiyo Matsumoto (dal fumetto omonimo)
Sceneggiatura: Anthony Weintraub

 
 
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