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Osama Tezuka, sinfonia di immagini

Sessant’anni fa Osamu Tezuka debuttava nel mondo dei fumetti con la striscia “Maa-Chan no nikki”. Non era nessuno, un altro dei tanti disegnatori di belle speranze che sognavano di fare carriera. Praticamente un ragazzino, pronto a seguire la vocazione per il disegno inseguendo una laurea in medicina. Sessant’anni fa nasceva sulla carta il futuro Dio dei manga e il mondo cambiò per sempre.
 
Prima ancora di diventare il padre riconosciuto dei manga, Osamu Tezuka (1928 – 1989) è stato il più fortunato ragazzino giapponese. Uno che non si è fatto mancare nulla, compresa la classica valigia stracolma di sogni e desideri. Provate a mettervi nei suoi panni, i panni di un Dio del fumetto e dell’animazione, e diteci se pure voi non avreste deciso subito per una vita all’insegna dell’arte e del disegno. Più qualunque favolosa dimensione che non fosse troppo appiccicata alla vita vera (da cui comunque carpire ossigeno). È questione di predestinazione, ormai ne siamo sicuri. La vita di certo ha aiutato. Papà Tezuka lo accompagnava spesso al cinema, mamma Tezuka lo trascinava con sé alle rappresentazioni tutte femminili del takarazuka. E intanto leggeva. Una passione cova dentro di te finché non le permetti di esplodere e per il giovane Osamu questa ha la forma di tante figure umane che prendono vita su un pezzo di carta. Immaginate per un istante di essere ancora quel Dio, durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale, dove tutti trovano il tempo di sopravvivere, lui vive inseguendo un sogno disinteressandosi delle incursioni aeree o del bene superiore per la patria. Mentre chiunque pensa a come sfamarsi, lui è affamato di immaginazione e fantasia – che già sono dentro di lui. Studia per diventare medico. La professione è di quelle che mamma e papà considerano nobilissime, ma lui se ne sceglie un’altra, imprevedibilmente. O forse no.  
Nel febbraio 1947 Osamu Tezuka pubblica “Shin Takarajima” per conto di un editore di Osaka. Centonovantadue pagine in cui – con le parole di Sakai Shichima, veterano dei fumetti – il classico dei classici di Robert Louis Stevenson, “L’Isola del tesoro”, si concilia ad altre letture d’avventura: “Tartan” e “Robinson Crusoe”. Giusto per restare in tema divino, i giovani lettori dell’epoca lo vedono come un dono dal cielo, un fumetto straordinariamente diverso da tutto quanto erano abituati a leggere. Il miglior complimento che giunge allo sconosciuto autore è che si tratta di un film a fumetti, con un ritmo incalzante e un climax imprevedibile.
Il “c’era una volta un disegnatore” per Tezuka inizia qui, ma lui – manga no kamisama – proprio non immagina come cambierà la sua vita e quella di milioni di ragazzi.
 
Un’avventura in bianco e nero
Poco più di quindici anni dopo, la storia è già cambiata. Osamu Tezuka ha smesso i panni dello sconosciuto disegnatore e ha avviato una invidiabile carriera nell’industria dei fumetti (“Shin Takarajima” vende qualcosa come 400 mila copie) e dell’animazione (dopo essere stato rifiutato una volta come animatore). Ancora non è indicato come padre putativo di nulla, ma nelle vesti di imprenditore di se stesso è simile a un pioniere, vincendo là dove altri si sognano di arrivare. La parentesi che lo vede in Toei Doga nei primi anni ’60 è un percorso formativo utile a saggiare la sua meravigliosa vena creativa (vedi: “Saiyuki”, cioè “Le tredici fatiche di Ercolino”) ma anche per tentare strade d’autore che – di nuovo – i magnate dell’industria animata neanche si pensano di percorrere (un esempio supremo: il corto “Tenrankai no e”).
Ci vuole un sacco di personalità per diventare qualcosa di totalmente estraneo a quel mondo. Dei fumetti che leggeva da ragazzino era entusiasta lettore ma pure implacabile critico: “Sentivo che esisteva un limite nello stile convenzionale dei manga”, dirà nell’autobiografia “Boku wa manga-ka” (Sono un disegnatore di fumetti). Fosse rimasto alla corte di Toei Doga, oggi avremmo un veterano in più, come tanti altri, e non il Maestro riconosciuto che è stato. Anche e soprattutto come esempio da seguire per tutti i presunti eredi o nuovi protagonisti della scena animata (da Hayao Miyazaki a Satoshi Kon). Non c’è disegnatore o aspirante tale, oggi, che non faccia il suo nome prima di consegnare il curriculum a un editore.
Ci vuole personalità e una buona dose di determinazione per fare di una passione un vero e proprio mondo popolato di personaggi originalissimi, animali più umani degli stessi umani, di altre dimensioni e di spazi temporali inafferrabili. Lungo l’arco di tutta la sua carriera Tezuka produrrà qualcosa come 150 mila pagine disegnate e avvierà un universo di fantasia e immaginazione che non ha precedenti. Difficile da imitare. Difficile perfino da comparare, benché la sua passione per Walt Disney lo avesse portato a concepire un fantastico bestiario di creature che avevano in più il dono della parola. Desistano coloro che sperano di trovare indizi di un vissuto disneyano nelle opere di Tezuka, anche ci fosse sarebbe un inconscio rimasuglio mnemonico: forse dovuto alle decine di volte spese a vedere e rivedere “Biancaneve” e “Bambi”.
L’avventura vera, quella in bianco e nero, ha inizio nel 1963 quando il pioniere delle immagini animate con classe e mezzi invidiabili sforna il primo episodio di “Tetsuwan Atomu” (per noi, “Astroboy”). Ci saranno altri centonovantadue appuntamenti come quello. È un gran bel colpo di fulmine, va detto. “Astroboy” finisce alla TV giapponese ma la rete americana NBC lo vuole subito tutto per sé per farne un ibrido per il pubblico americano (che forse sospetta di trovarsi davanti a un prodotto diverso dal solito). Si accetta anche questo a Tokyo, a denti stretti, ma il mercato del periodo è un uomo primitivo che scuote una clava: ci sarà modo di imparare la lezione. A scuola da Tezuka si va anche per imparare che la serialità televisiva sarà terreno fertile per mutamenti e variazioni. Il piccolo Tobio, creatura robotica nata per volere altrui, è già lì sulla soglia: presto gli faranno compagnia fratelli e sorelle che dalla carta risorgeranno sul piccolo schermo e al cinema.
 
L’uomo che raccontava tante storie
Ma c’è anche chi si chiede come diavolo abbia fatto. Mettere sotto assedio un’intera industria, convenzionale e molto rigida, è un’impresa epica. Eppure il tratto tondeggiante, gli occhioni espressivi e così grandi, diventano in poco tempo una guida per qualunque aspirante manga-ka; perfino i professionisti del fumetto provano a seguirne le tracce, apprendere come mettere in campo lo story-manga (invenzione tutta tezukiana). Probabilmente presero pure a frequentare di più i cinematografi.
Intanto Osamu Tezuka e qualche amico si riuniscono in un luogo chiamato Tokiwa-so: appartamento delle grandi occasioni dove rifondare la parola “manga”. La verità, nient’altro che la verità, sta proprio lì dove personaggi come Shotaro Ishinomori, Fujio Akatsuka e Fujio Fujio sedevano sui tatami l’uno accanto all’altro conversando e progettando un nuovo modo di fare fumetto. Siamo ancora negli anni ’50 e per tutti loro il futuro sarà glorioso. Non è affatto un caso. L’unione fa la forza, si dice. O molto probabilmente quello spirito di gruppo così tanto caro alla cultura nipponica è diventato la chiave di accesso non soltanto per stabilire un nuovo ordine di creazione “settimanale” di un fumetto (con assistenza di volenterosi discepoli) ma è stato fondamentale per sfamare un esercito di animatori e disegnatori che popoleranno prima la Mushi Production (entità produttiva sopravvissuta ancora oggi, nonostante il fallimento), quindi la Tezuka Productions, vessillo sotto il quale l’eredità di Tezuka non sarà mai perduta.
Quella di Tezuka è la storia di un uomo che amava narrare milioni di avventure, gelosamente custodite nella sua testa ma poi ridistribuite a centinaia di mani diverse che avrebbero pensato a trasformarle in movimento. Una catena dell’immaginario da cui sono usciti personaggi di proprietà della memoria collettiva per una intera generazione: “Astroboy”, appunto, “Kimba il leone bianco”, “La principessa Zaffiro”, “Dororo”, “Goku no daiboken”, i film adulti della serie Animerama, “Umi no Toriton”, “I bon bon magici di Lily”, “L’uccello di fuoco 2772”, “Unico”, “Black Jack” e i film televisivi (“Foomon”, “Bagi”, “Espresso sottomarino”, “Bandar Book”). Senza contare i cortometraggi da Storia del cinema: “Onboro Film”, “Jumping” e il bellissimo “Mori no Densetsu” con musica di Modest Mussorgsky, dove musica e animazione diventano sorelle sullo schermo. Il bello della lista è che ad ogni serie corrisponde un nutrito esercito di altri personaggi, alcuni storici e immancabili come lo “zio baffone” o il Prof. Ochanomizu con i suoi ciuffi bianchi di capelli e il naso voluminoso. In mezzo a quella folla ci sono personaggi di animo gentile, eccentrici cattivoni, eroi e impavide eroine, donne coraggiose, bimbi vivaci e intraprendenti, fino a esaurimento scorta di aggettivi. Insomma è difficile confinare nel recinto delle parola un universo così complesso e ben definito come quello tezukiano e al tempo stesso ricordare nomi e cognomi del suo ricco e irrinunciabile star-system. Per ognuno di essi, garantito, Tezuka aveva una buona parola da spendere, un gesto da regalare, un’azione da costruire. Mai vista drammaturgia tanto meditata e sincronizzata con il cuore e la mente del suo creatore, al punto che il miracolo definitivo consisteva nel ritrarsi egli stesso nelle vignette dei fumetti come presenza di collegamento tra fantasia e immaginazione.
Chi oggi ne segue l’esempio, probabilmente neanche capisce il significato di quel divertito soggiornare in casa delle proprie creazioni e creature. E mica da ospite qualunque.
 
Sinfonia di immagini
Di solito Tezuka lo ricordi (o te lo immagini) con l’inseparabile basco calato sul capo. O nella sua forma più caricaturale da cartoon e fumetto. Oppure in quel “Osamu Tezuka Manga Museum”, a Takarazuka, dove il miracolo della creazione è preservato ad uso e consumo degli sguardi di ammiratori e appassionati di vecchia data. Ma anche del giovane pubblico. Perché il grande successo di questo Artista è la sua capacità di essere alla portata di grandi e piccini. Nelle sue creazioni candore, maturità di vedute e coraggiose scelte ideologiche convivono con l’ironia, il divertimento, la voglia di farti sentire parte di una comunità senza distinzioni di razza, di pensiero, di fede. Tezuka era un immenso studioso dell’animo umano, un idealista e un umanista (come lo sarà Miyazaki) con l’invidiabile optional di sentirsi libero di esprimere un’opinione e metterla a disposizione di tutti. Un tizio assolutamente comune come te e me, ma con il dono di comunicare e raccontare ad un più alto livello. Creatura solitaria nel mondo dell’animazione giapponese. Aveva la musica dentro di sé e sapeva collezionare una varietà di sfumature: compito del lettore o dello spettatore riuscire a captarle.
La novità è che – dopo la sua morte – quelle note continuano a ronzare nell’aria. Tezuka Productions si è assunta l’impegno di continuare sulla strada del maestro e ha accompagnato i discepoli più fedeli e bravi (Rintaro e Osamu Dezaki) nella celebrazione di quello star-system immutato nel tempo. “Black Jack”, il chirurgo in nero unicamente apparso in ruoli da cattivo in “Bandar Book” e “L’Espresso sottomarino”, è risorto al cinema, in TV e in una serie di OAV che rasenta la perfezione. Come se qualcuno avesse voluto scusarsi, post mortem, per quegli incidenti di percorso. Tanta premura non è che la punta di un iceberg: nel 2001 esce un sontuoso film d’animazione realizzato come omaggio a “Metropolis” (il manga di Tezuka). Rintaro dirige, Katsuhiro Otomo scrive. Per un istante è come se il tempo si fosse fermato e avesse tinto le pagine in bianco e nero di quel lavoro a fumetti con colori sgargianti e splendenti sullo schermo. Nel 2003 anche “Astroboy” percorre la strada del remake, del restyling animato. Se gli togli i preziosi ritrovati della tecnologia di oggi, le animazioni perfette e curate resta l’ombra di un cult che non sembra aver ancora perso contatto visivo con l’originale. Miracoli della conservazione dei beni artistici di un genio.
E, aspetta! c’è anche di più: è proprio in questo preciso momento che la storia di Osamu Tezuka (impossibile da raccontare tutta in poche parole) si sintonizza meglio con la divina sintesi di un nome e una professione.
Manga no kamisama. Come lui, ovviamente, non c’è nessuno. Ieri, oggi e domani.
 
TEZUKA, SECONDO LUI
È proprio vero che un’immagine vale più di mille parole. Se per raccontare la vita e l’opera di Osamu Tezuka servirebbe un immane lavoro di ricerca, c’è anche chi con la medesima premura è riuscito a raccontare il Dio dei manga ma in forma di fumetto. Dopo i quattro volumi della biografia a fumetti edita anni fa da Coconino Press, esce per Kappa Edizioni “Tezuka secondo me: Una biografia d’autore” scritto e disegnato da Takao Yaguchi, il celebre creatore di “Sanpei ragazzo pescatore”. Siccome è storia vecchia la devozione di gran parte del kingdom fumettistico giapponese nei confronti di Tezuka, è un piacere immenso scoprire come tale devozione e ammirazione sia stata tradotta in originale e riuscita raccolta di eventi, aneddoti e situazioni della vita personale dell’autore di “Kimba”, “Astroboy” e “La principessa Zaffiro”. Meglio di qualunque verboso saggio con complicatezze estetiche e semantiche. No, “manga no kamisama” si può ricordare e riesumare dai ricordi anche così. Il volume di Yaguchi si apre con la notizia della morte di Tezuka (avvenuta il 9 febbraio 1989) e da lì parte a riconsiderare affettuosamente il profilo umano e artistico di un uomo unico e insostituibile nella storia culturale del moderno Giappone. Un padre fondatore, la cui eredità è ancora oggi presente in migliaia di pagine a fumetti e fotogrammi animati.
di Mario A. Rumor 
 
 
Per le immagini © Tezuka Productions

 
 
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