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Approfondimenti

Gedo Senki - Ma papŕ ti manda solo?

Nel nome del padre. È il modo più sbagliato e meno cortese per attirarsi le simpatie di Goro Miyazaki, figlio di cotanto padre, che si è improvvisato regista (ma qualcuno non sarà d’accordo) portando sullo schermo “Tales of Earthsea” di Ursula K. Le Guin (che tanto contenta non è) e vincendo il confronto con il botteghino di casa sua dove, non senza stroncature feroci, il suo “Gedo Senki” ha conquistato il pubblico. Ipotecando seriamente il nome dello Studio Ghibli a nuove avvincenti avventure.
 
Contento, e molto, deve essere Toshio Suzuki, forse il vero monarca dell’animazione giapponese. Chi meglio di lui è riuscito a trascinare gli anime fuori dal ghetto, facendo conoscere il nome di Miyazaki e Takahata anche fra coloro che di solito storcono il naso davanti ai prodotti del Sol Levante? Soprattutto, chi se non lui è riuscito a portarsi a casa, al sicuro, un luccicante premio Oscar per l’onore di Miyazaki, certo, ma pure dello Studio Ghibli?
La sua ultima scoperta è un nome nuovo del cinema animato, ma anche vecchio visto che ha lo stesso suono che fa la pronuncia del cognome “Miyazaki”. Riuscire a convincere Goro, primogenito del regista che di tutto si occupa fuorché di animazione, deve essere stato il classico colpo di scena che nessuno s’aspettava. Il grande capolavoro dell’ex direttore del mensile “Animage” finito a dirigere il più importante studio d’animazione dell’intero Giappone. Uno che gareggia con Itoi Shigesato, storica voce del babbo in “Tonari no Totoro”, a inventare nuovi prodotti di consumo culturale per la massa. Davvero, tanto di cappello. Qualcuno naturalmente non si è lasciato sfuggire, in merito alla decisione di Goro Miyazaki di dirigere un film animato, la quanto meno insolita e inaudita circostanza di un non ufficiale passaggio di consegne tra padre e figlio, assistendo per la prima volta nell’industria degli anime a ciò che invece è costume tipicamente italiano: il nepotismo. Fortuna che Miyazaki-padre si è opposto fin dall’inizio alla decisione del figlio, altrimenti avremmo volentieri perso un grammo della stima per lui. Il guaio è che ci si è messo prima l’enfant prodige Hideaki Anno (Evangelion), poi il maestro Yasuo Otsuka a complicare le cose. Sì, perché entrambi – non senza sorpresa – si sono lanciati a lodare il lavoro di Goro prima ancora di vedere i risultati sullo schermo. Sono bastati gli storyboard che il giovane ha diligentemente realizzato dopo aver aiutato Keiko Niwa a scrivere la sceneggiatura. Materiale sufficiente per lasciare di stucco i due celebri animatori che Goro se lo ricordavano bambino.
 
Questioni di famiglia
Ma l’obiezione resta, e niente e nessuno vieta ai nuovi colleghi di Goro di guardare in cagnesco questo prodigioso ricollocamento professionale, mentre la lista d’attesa per diventare il nuovo Miyazaki è sempre più lunga e disastrata (in mancanza di reale genio artistico). Era dai primi anni ’60 che non accadeva qualcosa di simile, quando cioè in Toei Doga anche un assistente che non aveva mai toccato una matita in vita sua poteva finire a dirigere serie tv e film (è il caso di Takahata). Non stupitevi dunque se al riscontro dello storico, gran parte dello staff del Ghibli ha fatto valere piuttosto i propri diritti di salarymen del disegno animato andando contro la decisione di Suzuki e mettendo il broncio giusto quei cinque minuti prima di mettersi al lavoro. Anche per loro è valso il miracoloso aplomb di Goro che il Signor Padre lo chiama Miyazaki-san come tutti i comuni mortali su questa Terra e mai ha fatto pesare di essere geneticamente frutto di quel genio, anche perché non ne avrebbe in ogni caso tratto profitto. Miyazaki è un castigamatti come pochi, ma le risposte che fornisce, dopo la comprensibile sorpresa, a un Suzuki che lo avverte di aver scelto Goro come regista di “Gedo Senki”, starebbero bene in un romanzo di Kenzaburo Oe: “Se lo persuadi a farlo e lui accetta, io non ho altra scelta”. Resta la consapevolezza dell’uomo tutto d’un pezzo che non accetta la scelta dell’amico ma neanche si permette di opporsi. È al tempo stesso commovente ed emblematico il comportamento di papà Miyazaki quando il figlio Goro, solo per non scontentare nessuno, confessa di voler fare ritorno al suo precedente lavoro una volta terminato il film. “Come puoi essere così indifferente? Pensi di potertene scappare via ora che sei agli inizi?”, gli dirà l’anziano regista. Emblematico perché è la prima volta che i due hanno una conversazione sul loro comune mestiere. Prima c’erano stati soltanto silenzi imbarazzanti e un commento fugace sul film visto da Miyazaki alla proiezione organizzata per i membri dello studio (“è un buon film”). Commovente perché salta fuori un ritratto di famiglia che Miyazaki ha sempre tenuto per sé. Il ritratto dell’artista severo e geniale cede il passo, per qualche frazione di secondo, all’uomo di una generazione silenziosa e assente che però ci tiene a tenere il figlio lontano dal mondo precario dell’animazione indirizzandolo altrove, visto che pure mamma Akemi Ota era stata animatrice in quel di Toei Doga e non aveva esitato un attimo a mollare tutto per occuparsi di casa e famiglia. Probabilmente non avevano tenuto in considerazione il terzo incomodo, Toshio Suzuki. Nel 2005, poco prima di cominciare la lavorazione del film, egli ha per le mani un giovane a cui riconosce enorme talento e che, senza pentimento, accetta i consigli del produttore a modificare scelte narrative ritenute troppo drastiche in sede di sceneggiatura. Senza contare la pubblicità gratuita che i mezzi di comunicazione gli hanno riservato facendo rimbalzare su giornali e Tv la storia del giovanotto che non voleva essere come il padre ma ha finito per esserlo senza troppi sconti.
 
L’uomo che piantava alberi
Giusto per far capire che non oserà seguire le ombre dei genitori, Goro Miyazaki, nato a Tokyo nel 1967, si laurea in Scienze Forestali dopo aver studiato alla Shinshu University’s School of Agriculture. L’immagine del suo lavoro è la stessa di un famoso film di Frédérick Back amato sia da Miyazaki che da Takahata: “L’Homme qui plantait des arbres”. Immaginate l’invidia dei diretti interessati che hanno passato la vita a circondarsi di verde e fervore ecologico nei propri film. Goro invece lo fa con le sue mani. I progetti e l’ideazione di parchi e zone urbane rigogliose di quel verde sono il curriculum necessario che lo condurranno a ideare e gestire un altro affare del padre: il Museo Ghibli. La rete di stato NHK ci farà anche un riuscito documentario, “Hayao Miyazaki to Jiburi Bijyutsukan” (Hayao Miyazaki e il Ghibli Museum), con Isao Takahata e Goro in vena di chiacchiere. Pur lasciando il suo posto di direttore per passare alla regia, il giovane Miyazaki ha già le idee chiare: “Credo che il futuro dello Studio Ghibli sia legato a doppia mandata con il Museo”. Mica stupido il ragazzo. Forse ha intuito che il parco ideato da Miyazaki non è unicamente un paese delle meraviglie ispirato ai film Ghibli ma anche un nuovo centro elettivo per animazioni di piccole proporzioni a disposizione dei soli visitatori. L’ideale qualora decidesse di riprendersi il vecchio lavoro e proseguire il tragitto iniziato con “Gedo Senki”.
Per realizzare il quale ha preso in consegna – idealmente – il terzo volume delle avventure immaginate dalla scrittrice americana Ursula K. Le Guin e ci ha lavorato sopra con il privilegio di trarre ispirazione da quel “Shuna no tabi” che il padre disegnò nei primi anni ’80, poco prima di votarsi al successo con “Nausicaä”. Qualcosa sopravviverà nella misteriosa Therru e in quelle carovane di schiavi in catena che affollano alcune sequenze del film. L’altro elemento di fedeltà al cinema del padre e alla tradizione figurativa dello Studio Ghibli è riproporre le ambientazioni riccamente disegnate e i volti dei personaggi (soprattutto a inizio film con il Re e la Regina) che hanno incantato il pubblico di mezzo mondo e che tornano quasi come un indelebile marchio di fabbrica. Goro non s’accontenta di tradurre in immagini il romanzo ma ci mette del suo vedendo nel clima epocale del libro qualcosa di evocativo, strettamente legato al mondo attuale. E infatti spiega: “Il mondo in cui oggi viviamo è molto simile a quello di Hort Town e Lorbanery, che sono le ambientazioni del terzo volume della serie intitolato “The Farthest Shore”. Ognuno di noi è freneticamente indaffarato, sempre in movimento, ma tutto sembra accadere senza scopo. È come se le persone avessero il timore di perdere ogni cosa”. La preoccupazione maggiore ricade sulle giovani generazioni (altra lezione appresa dal padre e da Takahata), troppo slegate dalle responsabilità, troppo inclini al disfattismo comunitario e a pensare unicamente a se stesse, pericolosamente vittime del consumismo sfrenato che, ormai pare chiaro anche qui da noi, ha cancellato la forza dei sentimenti veri e dei valori più autentici. Chiedere spiegazioni allo smarrito e tragico personaggio di Arren, principe di Enland, per capire dal momento che arriva a uccidere perfino il padre (ma niente riferimenti al suo rapporto con Miyazaki, non otterrete le risposte che cercate). Il senso di disagio esistenziale e sociale è fortissimo nel film: la prosperità che un fantasy dovrebbe evocare viene invece ripudiato e al suo posto il caos diventa materia di scambio con le tenebre e la malvagità. Neanche la magia è così presente come ci si augurerebbe.
L’amara sorpresa però è tutta della scrittrice Le Guin, fino all’ultimo convinta che a dirigere la pellicola sarebbe stato Miyazaki senior, considerato l’incontro avvenuto nella sua casa nel 2005 in presenza dell’ineffabile Toshio Suzuki. Come il celebre regista diplomatica nel formulare un apprezzamento su “Gedo Senki” (“è un buon film, ma non è il mio libro”), quanto amareggiata da certi comportamenti che proprio Goro le ha riservato andando a spiattellare le sue parole sul suo seguitissimo blog. Poco cortese e poco galante. O semplice ingenuità del principiante. In Giappone, ma non solo lì, i critici gli hanno fatto pesare l’eredità paterna e sono volate stroncature feroci. In effetti il film non è perfetto: noioso e irrisolto sono i più generosi complimenti che si possono fare a questo film d’esordio, che non manca certo di momenti stupendi, come l’inizio con il mare in burrasca o come la scena dell’incontro con il drago. Avendone la possibilità, Goro Miyazaki non s’è lasciato sfuggire un certo compiacimento pittorico nelle ambientazioni che vale come punto in più nel conteggio finale e, soprattutto, si avvale del magnifico componimento musicale di Tamiya Terashima capace da solo di reprimere ogni peggior istinto da recensore insensibile. Resta sicuramente un buon film. Un sorprendente film realizzato da uno che di animazione mastica poco i vocaboli anche più tecnici (e si vede spesso nei movimenti di macchina), ma ha una vivida immaginazione. Papà Miyazaki ha visto giusto. Ora il verdetto passerà al grande pubblico, anche italiano, che potrà assistere in primavera al film (intitolato “Racconti di Terramare”) grazie alla distribuzione di Lucky Red. E allora sapremo.  
 
di Mario A. Rumor
 
 
© 2006 Nibariki – GNDHDDT
© 2007 Lucky Red per la versione italiana

 
 
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