Yamato video

 
 

Profili/omaggi

Mamoru Oshii, l'angelo & l'apocalisse

È rimasto al buio, il cinema di Mamoru Oshii. Buio come lo stanzino del Maggiore Kusanagi;   come la stanza sudicia e in penombra abitata dal papà e dal bimbo di “Twilight Q”. Nel 2001, anno kubrikiano per eccellenza, Mamoru Oshii ha compiuto mezzo secolo di vita. Coincidenza che suscita invidia: tanto più perché questo regista dagli occhi a mandorla di Stanley Kubrick è ammiratore. In quel buio filosofico egli cerca da sempre l’interruttore della conoscenza, a dispetto di ciò che i suoi più stretti fan sanno e cioè che le domande che egli rivolge non sempre trovano delle risposte e le tiepide risposte, paradossalmente, riconducono ad altri interrogativi: un circolo vizioso che non porta in nessun dove. Tranne al buio iniziale.
 
Perdersi nel labirinto
Mamoru Oshii è una sorta di vivente (e raziocinante) irregolarità nel mondo degli anime, capacissimo di firmare opere commerciali e divenire il paladino di un’elegiaca Japanimation ben distinta dal mainstream. Egli è un po’ come Hal 9000, dubbioso e timoroso, sempre pronto a incalzare con un nuovo quesito. Se mai Oshii avesse abbozzato un programma di vita, il cinema animato era l’ultimo dei suoi pensieri. Il cinema, quello vero, recitato da attori in carne e ossa, solidale alla Sci-Fi americana degli anni ‘50 o al primo, apocalittico, “Godzilla” (1954), diventa una magnifica ossessione grazie alla cronica disoccupazione del padre che volentieri lo accompagna in qualche sala. Ultimo di tre fratelli, nel 1976 Oshii esce dalla “Tokyo Gakugei Daigaku” con una laurea in Belle Arti mentre il curriculum biografico si arricchisce di esperienze radiofoniche, frequentazioni con i locali movimenti anarchici, plausibilmente instabili. Ambienti dove il suo cinema primordiale fluttua in un embrione non del tutto sviluppato. Facile da scrivere, difficile da concepire mancandoci quasi tutta la filmografia di corto e mediometraggi realizzati nel club dell’università in assoluta indipendenza.
Nato a Tokyo nel 1951, Mamoru Oshii è uno che ama isolarsi, causa carattere poco espansivo; e di solito sulla sua famosa controcultura razionalista non ama concedere repliche. Se desiderate passare a trovarlo, o lo scovate negli uffici di Production I.G, oppure nella sua casa nella tranquilla penisola di Izu dove si è trasferito nel 1993 con famiglia e cane bassotto Gabriel: fedele compagno a quattro zampe che, dai tardi anni ‘80 in poi, gli ha fatto compagnia in ogni fotogramma del suo cinema. La biografia artistica ha un prologo ambientato nel mondo delle stazioni radio: un impiego che lo tiene occupato fino al 1977, anno in cui entra a far parte dello Studio Tatsunoko nella più totale ignoranza su come si realizzi un cartone animato. E lì impara a fare cartoni animati. Tutti lavori televisivi, senza gloria né infamia. Tant’è che neanche dopo tre anni si licenzia per seguire il suo mentore Hisayuki Toriumi (un grande esperto di animazione e science-fiction: vedi anche “Dallos” e “Salamander”) presso il neonato Studio Pierrot. Pure qui ci lavora poco ma, tolto dalla lista il “Lamù” televisivo (1981) che diventa un inaspettato titolo di culto, la clausola che egli desidera subito imporre è appunto quella dell’indipendenza. La ottiene all’età di trentatré anni parlando di “angeli e uova” criptando il linguaggio degli anime: una ghiotta notizia per gli spettatori più colti che aspettavano da tempo un genere di animazione controcorrente. Un modello di cinema già imprendibile. Come la disponibilità a opzionare soggetti commerciali o meno. Così si spiegano un lungometraggio di surreale intrattenimento come “Lamù – Only you” (1983), dinamico e irrefrenabilmente grottesco, e un secondo lungometraggio, “Lamù – Beautiful Dreamer” (1984), scolorito di ogni ironia. Un fremito di sano egocentrismo cui, per esempio, un autore come Hayao Miyazaki è arrivato dopo quasi trent’anni di onorata carriera, sacrifici e sogni riposti a malincuore nel cassetto. I due sono grandi amici e il reciproco rispetto è così sostantivato: “Tu sei un entertainer”, spiega Oshii; “Mentre tu sei un pensatore”, replica il regista di Princess Mononoke. Tutto vero, è successo da qualche parte nella biografia di entrambi.
Nel frattempo il cinema del regista si è riempito in fretta di ridondanti e riconoscibili emblemi, grazie ai quali potrebbe essere facile non smarrirsi nel suo labirinto cinetico. Si tratta né più né meno di presenze fisse che non spiegano quasi nulla, salvo ipotizzare un certain regard che va a pescare nell’iconografia biblica animali quali pesci e uccelli. Figure di cui egli fa un uso contorto, arrivando a sacrificarli a colpi di fucile (“Patlabor the movie 2”), trasformandoli in guardiani dall’aldilà (“Patlabor the movie”) o plasmandone la carne in un processo di incontrollata mutazione (“Twilight Q”). Quanto al suo adorato Gabriel, c’è da dire che è la guest star più amata, amorevolmente fatta accomodare sullo schermo come presenza discreta del regista stesso; quasi si avvertisse l’urgenza di uno sguardo in più nell’ingarbugliato climax narrativo. Appendici cinofile sono del resto assai frequenti nella filmografia di questo regista: da “Nills Holgerson” (1980) al cane-cibernetico di “Dallos” (1983), ai bassotti “replicati” nei vari “Patlabor the movie” e “Ghost in the shell”, fino ai lupi di “JIN-ROH” (1998). Neppure la costruzione delle ambientazioni è casuale: i luoghi su cui si sviluppa l’azione appaiono in perenne ristrutturazione o sulla via del disfacimento, comunque mai definitivi. Non esiste nel suo cinema un ambiente differente da quello di una metropoli sempre sul punto di rifarsi la “faccia”, come si nota in “Patlabor the movie” 1 e 2 o in “Ghost in the shell”; né lontanamente dissimile da un “sito archeologico” (le vecchie case in legno da demolire in “Patlabor the movie”, i ponti dell’Era Imperiale in “Patlabor the movie 2” o lo scheletro di un antico palazzo in cui vengono rinvenute le ossa dell’angelo in “Tenshi no Tamago”). E ancora: il quartiere di Ataru Moroboshi in “viaggio” nello spazio (“Lamù – Beautiful Dreamer”) o la pensione assolata di “Twilight Q”.  
Un analogo clima è offerto in “Tenshi no tamago” (L’uovo dell’angelo, 1985), quasi un film di settanta minuti prodotto per il mercato home-video realizzato in collaborazione con Yoshitaka Amano, uno dei maggiori illustratori nipponici. La pellicola asseconda i virtuosismi di entrambi: da un lato mette in scena il narcisismo criptico di Oshii raccontando l’incontro tra un soldato arrivato da chissà dove e una bambina con un uovo misterioso da proteggere, assottigliando i loro dialoghi all’inverosimile; dall’altro lato Amano entra in argomento con il languore malinconico tipico delle sue creazioni pittoriche, riprodotte su corpi diafani che attraversano scenari mai così lugubri. Sogno o realtà? Luce o buio? Vita o morte? Tanti sono gli interrogativi, quante le destinazioni del racconto: il planetario dove riposa la bambina, la “città dei pesci” di cui restano impresse sugli edifici soltanto le ombre; la cattedrale che ricorda un vecchio Teatro dell’Opera. In qualunque direzione lo si guardi, questo tragitto è calpestato da silenziose figure in processione, anch’esse ansiose di conoscere l’ubicazione dello scheletro fossilizzato dell’angelo. Una volta letto Antico e Nuovo Testamento, Oshii si diverte insomma a spergiurare la migliore causa iconografica del suo film, traducendovi le figure di cui si è detto: i pesci come simbolo di Cristo; l’angelo come simbolico messaggero metatestuale che invita i personaggi del film ai confini della loro stessa fede (e tanto più “assurdo” in quanto riproposto addirittura nel finale di “Ghost in the shell”).
Per guastare ulteriormente la quiete della Japanimation tradizionale, nel 1987 Mamoru Oshii si avventura nei trenta minuti più caustici mai realizzati per il mercato dei video. “Twilight Q – 2: Meikyu bukken File 538” (Twilight Q – 2: La prova del labirinto File 538) rientra anch’esso in un capitolo di eccesso e follia. Lo scenario è impressionante: un Boeing 747 della JAL (Japan Air Lines) mentre è in volo muta improvvisamente la propria carlinga nella pelle squamata di un pesce. È solo l’inizio. Tutto si concentra in realtà in uno stanzino buio e disordinato, abitato da un padre e il suo bambino, che trascorrono il tempo dormendo o gustando spaghetti in brodo. Il volto è imperlato di sudore per il troppo caldo. A un certo punto l’uomo si allontana e il suo posto viene occupato da un signore con impermeabile e occhiali scuri che siede davanti a una macchina da scrivere col preciso compito di proseguire raccontando la “sua” storia. L’idea è che quel padre e il suo bambino ricordino banalmente Mamoru Oshii (l’inequivocabile capigliatura arruffata) e il padre in una concezione grafica in bilico fra ritratto e caricatura (che è anche il modus operandi abituale del regista quando disegna gli storyboard dei suoi film). Il sospetto è che l’uomo con l’impermeabile interpreti la parte di un investigatore e che sia pure il padre stesso del bambino, immerso in un’assurda staffetta narrativa che colloca sulla scena il narratore stesso della storia. Un gioco suscettibile di continue mutazioni epidermiche, un gioco infantile di immedesimazione e replica, che sta ai protagonisti di “Twilight Q” come ai presunti giochi padre-figlio della famiglia Oshii, di ritorno dalle visioni quotidiane nei cinema di Tokyo. L’unica differenza è che il gioco di Oshii-regista scombina radicalmente il comune senso del pudore degli anime a lui contemporanea perché, se in “Lamù – Il sogno” eravamo attratti dalla mescolanza di sogno e realtà, in questo cortometraggio si prende coscienza del tema della fiction come processo cognitivo, che da “Patlabor the movie 2” in avanti è diventato l’item distintivo del regista, più equilibrato e meno assurdo.
 
Luci d’inverno a Tokyo
… citazione bergmaniana a parte, il cinema di Mamoru Oshii agli inizi degli anni ‘90 si ritrova a castigare ogni fronzolo formale, lottando contro se stesso e contro il sistema tradizionale della Japanimation, abiurando da qualsiasi forma narrativa tipica degli otaku (come “Dallos”). Lo fa scegliendo uno degli stereotipi assoluti dell’animazione giapponese, i Robot, costruendo per essi un discorso artistico tutto nuovo. Nel 1987 viene fondato un gruppo chiamato “Headgear”. È composto da una celebre disegnatrice conquistatasi l’affetto dei fan grazie a “Creamy” (Akemi Takada), dal di lei consorte che vive scrivendo per il cinema e la Tv (Kazunori Ito), da un disegnatore di fumetti non ancora popolare (Masami Yuuki), da un mecha designer che aveva collaborato in uno dei tanti “Gundam” (Yutaka Izubuchi) e dal regista “freelance” con l’ossessione per cani, pesci e volatili che già conosciamo. Nasce con il preciso intento di formulare un inedito programma di multimedialità applicata agli anime. Dopo false partenze, Headgear sforna il progetto della mini serie di OAV intitolata “Kido Keisatsu Patlabor” (1988), incentrato su un improbabile corpo di polizia del futuro (il 1998) cui spetta l’incarico di vigilare sull’irrequieta vita metropolitana di Tokyo. Vengono a tal proposito utilizzati robot alti otto metri che abbandonano il ricordo del Mobile Suit alla Gundam in cambio di una più agile concezione del mezzo robotico, auspicabile per il nostro in the near future, con armi convenzionali (revolver e manganello) e attivazione guidata da un software. A comandarli sono gli stessi poliziotti e c’è una squadra che supervisiona ogni intervento. La vena antagonistica è degnamente rappresentata: ci sono eco-terroristi, sabotatori, multinazionali corrotte. Ma nella mini-serie c’è tanta umanità e pochi risvolti melodrammatici: i rapporti interpersonali sono coltivati in modo divertente, ci sono mogli a casa che aspettano il rientro dei mariti, le gerarchie di comando e la burocrazia mettono a disagio anche i più probi; infine c’è Mamoru Oshii. Per un certo periodo infatti l’operazione “Patlabor”, più di una volta assolutamente geniale, a volte ironica e maliziosa, svolge ogni punto del programma e quindi saltano fuori puntualmente: un fumetto, un videogioco, una serie televisiva e una seconda stagione di OAV, in cui Oshii si diletta a soppesare nuovamente il suo narcisismo intellettuale citando “Blade Runner” di Ridley Scott. Tuttavia il discorso si fa più serio e interessante con la produzione di due film di altissima qualità tecnica (soprattutto il secondo). Da buon amico, Miyazaki ad esempio gli farà notare che “Patlabor the movie” è realizzato nel 1989 nel bel mezzo della “Bubble Keizai”, cioè l’economia effimera che in Giappone favorì una corsa sfrenata agli acquisti e alla svalutazione degli immobili, scatenando orde di bulldozer contro vecchi quartieri da demolire. C’è dell’astio verso gli eccessi: Oshii non nasconde il personale disappunto per simili abusi capitalistici. Tant’è che, quando la “bolla” finalmente si sgonfia inaugurando un lungo periodo di recessione, egli non solo lascia Tokyo alla volta di Izu, ma firma anche uno dei capolavori assoluti dell’animazione: “Patlabor the movie 2” (1993). Rispetto al primo capitolo, “da intendersi né più né meno come un ambizioso progetto di intrattenimento”, ricorda il disegnatore Izubuchi, la nascita di “Patlabor the movie 2” sul grande schermo non si è accontentata di appassionare lo spettatore né di riciclare argomenti golpisti già apparsi nella prima serie di OAV (“Patlabor il giorno più lungo”, 1988). Il film infatti viene preso in consegna da Oshii e diventa una creatura indipendente dal resto (o come il resto) della sua filmografia: un contenitore ideale per una sincera filosofia politica. Anche quando la durata originale sfiorava quasi le due ore e venti minuti: un ultimo baluardo di integralità che Oshii ha riversato romanzando il film in “Tokyo War” (pubblicato nel 1994 dall’editore giapponese Fujimi Shobo) dove lo spettatore ritroverà quelle stesse suggestioni e inquietudini, ma in director’s cut.
 
Intrappolati nella rete
Il giapponese Mamoru Oshii non è mai stato un nome internazionale fino al giorno in cui è arrivato “Ghost in the shell” (Kokaku kidotai, 1995). Un film che nasce sul ricordo di un culto a fumetti, “Squadra Speciale Ghost”, pubblicato in Italia da Star Comics, firmato Masamune Shirow, affezionatosi alla cultura del cyberpunk e a intrecci troppo complicati pure per lui. “Ghost in the shell” ha nell’ordine: 1) scalzato l’onnipotente “Akira” dal suo trono; 2) ha presenziato a un’edizione del Festival di Venezia all’epoca dei fattacci del tutto impreparata (o affatto interessata) ai lungometraggi d’animazione; 3) ha proditoriamente saltato la distribuzione in sala nonostante le rassicurazioni di Polygram; 4) ha rappresentato il film-documento che per primo ha modificato la percezione sci-fi/cyberpunk, immergendosi nel mare magnum delle Rete informatica e, 5) ha costituito per breve tempo il capolavoro numero due di Mamoru Oshii, dopo il secondo “Patlabor the movie”. C’era fra le ambizioni del regista l’idea di un progetto che raccontasse di un computer vagamente imparentato con l’Hal 9000 di “2001 - Odissea nello spazio” e con Mater del film “Alien”: una raziocinante entità che risultasse alla fine inquietante agli occhi del pubblico. Invece è uscito “lo spirito nella macchina”, sul quale ha potuto esercitare una totale libertà di rifacimento rispetto al manga originale: cosa piuttosto rara nel settore. Affrontando un tema cui prima o poi sarebbe inevitabilmente giunto anche senza l’opera di Masamune Shirow. La vicenda è ambientata a New-Port City, a.D. 2029, non una città ma “la città”: di fatto modellata sul ricordo di Hong Kong e Venezia per farne “una città sommersa che evocasse la fine di un secolo”. E che desse visivamente l’idea della Rete, che è vasta e infinita, come capita infatti di vedere al termine della pellicola. In questa metropoli, cupa e piovosa come la Los Angeles di “Blade Runner”, lavora nell’ombra una squadra speciale istituita dal Ministero degli Interni, la Sezione 9, e attivata a combattere il cyber terrorismo dentro e fuori la Rete. “Ghost in the shell” inizia per l’appunto col brusio indistinto di voci che affollano la “mente” del Maggiore Motoko Kusanagi, corpo cibernetico tout court con un’anima umana intrappolata nel guscio di titanio. I guai cominciano durante un’operazione di routine. A ben vedere già lì qualcuno confabula di un misterioso progetto, dietro cui si cela il fittizio Ningyotsukai, cioè il “Signore dei pupazzi”, un hacker “senza corpo” e senza identità generato nel mare informatico. Questa entità è in grado di penetrare nello “spirito” delle persone e modificarne la percezione della realtà e dei ricordi, assoggettandole al suo supremo intento nichilista di rigenerazione. Sembra un paradosso, vero? Ed è esattamente lo scopo che intende raggiungere tramite Kusanagi, risorgendo come entità altra da sé. A dire il vero il contesto immaginato da Oshii (nonostante la sceneggiatura di Kazunori Ito), dopo aver annientato l’impermeabilità del fumetto, non esita come sempre a chiamare in causa il suo radicale pessimismo. Al retorico “chi sono io?” in chiave cyberpunk , egli non ha l’urgenza di fornire immediate risposte; piuttosto si serve di innesti espressivi nuovi (il faccia a faccia “vocale” tra Il Signore dei pupazzi e Kusanagi, il dubbio crescente del cyborg-non-più-cyborg) per ribadire la plausibile “umanità” di ciò che umano non è (quasi) più. Il soggetto di Shirow gli offre la certezza ideologica di mettere a dura prova ogni “virtualità” della vita moderna, fracassando il miraggio della concretezza e della effettiva realtà: temi cari alla logorroica tesi cinematografica di Oshii. La fusione/matrimonio di un corpo con un non-corpo – senza peraltro assistere in loco al rito nuziale – e la assimilazione finale di Kusanagi con il Signore dei pupazzi sono un azzardo semantico. La fusione genera un nuovo corpo: la bimba che osserva New-Port City sul finale, ha caratteristiche da personaggio fiabesco e la Rete è il nuovo fitto bosco incantato. L’ultimo azzardo Oshii se lo concede come artigiano delle immagini affidandosi alla animazione classica con innesti di computer graphic. Di cui “Ghost in the shell” è sicuramente modello e punto di avvio.
 
Uomini lupo e divagazioni digitali
L’altra faccia del cinema animato di Mamoru Oshii si divide tra la frequentazione di set live-action e la supervisione dei lavori “scaturiti” da una mini factory nota fino ai primi anni del 2000 nell’ambiente degli animatori come “Team Oshii”. Le prove live si perdono nel passato universitario del regista sotto forma di introvabili cortometraggi e proseguono con una magnifica ossessione per il cinema fatto con budget di soccorso: è confortante sapere che un colosso multimediale come Bandai Visual abbia più volte rischiato sulla propria pelle per assecondare i desideri visionari di Oshii. “Akai Megane” (1986) viene realizzato in questa atmosfera di ottimismo e sperimentazione; il film introduce tra l’altro la figura del “kerberos”, una nemesi ancestrale intrecciata al mondo del mito, vista perfino in un episodio di “Lamù”, che il regista farà circolare con senso del dovere estetico anche in “Stray Dogs Panzer Cops” (1991) e in “JIN-ROH”, dopo aver sceneggiato il fumetto di Kamui Fujiwara. Impossibile a questo punto dimenticare la sua terza prova da regista “live” con la pellicola “Talking head” (1992), tutta ripiegata su se stessa e di non facile interpretazione, che Oshii fuse con sequenze animate realizzate da Haruhiko Mikimoto (“Macross”) e Hisayuki Toriumi (“Salamander”).
“Remnant-6” (1996) resta quel B-movie di fantascienza che il regista ha soltanto scritto immaginando un vascello spaziale dell’anno 2046 in stile Titanic con relativa e drammatica collisione. Qualcosa di nuovo è invece “JIN-ROH”, pellicola d’animazione nata quasi per caso nella generale pigrizia di Oshii a non voler dirigere altri film dopo lo stress di “Ghost in the shell”. Già qui ci sono i primi sintomi del contagio autoriale del Team Oshii, in seno al quale confluiscono amici, fedeli collaboratori (lo sceneggiatore Kazunori Ito, gli animatori Toshihiko Nishikubo e Kazuchika Kise, il regista Hiroyuki Kitakubo e il disegnatore Tetsuo Nishio), nonché i più dotati disegnatori impiegati presso Production I.G.
Ancora: tutto gioca a sfavore della sua pigrizia. I preventivati, e più “facili” OAV vengono visti meglio come pellicola da cinema visti i miliardi di “Princess Mononoke” e l’accoglienza trionfale a “Perfect blue” (1997). Inoltre Bandai ha in quel periodo un’indole suicida tenendo sul groppone nientemeno che “Steamboy” di Otomo e “WXIII – Patlabor the movie”, tutti probabili ritardari. La regia di “JIN-ROH” se la piglia Hiroyuki Okiura, debuttante con ottimo curriculum alle spalle, e la sceneggiatura gliela scrive lo stesso Oshii a tempo di record, preso atto del nuovo corso che intanto si stava dando al fumetto di Fujiwara.
Le produzioni altrui fanno bene alla salute del cinema animato, visto che il Nostro si dedica a “Blood – The Last Vampire” (2000), quarantotto minuti dedicati ai succhiasangue con sfondo politico e storico ben preciso (la guerra in Vietnam). Tecnicamente il film è parecchio loquace: si tratta di un anime che vive di azione e di convulsi movimenti di macchina anche se Production I.G dirà di essere più orgogliosa dei prodigi tecnici avendo tenuto a battesimo il loro prime anime in full digital animation
Toccherà aspettare il kubrikiano traguardo del 2001 per vedere Oshii all’opera con il fondamentale “Avalon”, pellicola di catatonica bellezza visiva che lo catapulta fuori concorso al “Festival di Cannes” 2001 e al bolognese “Future Film Festival 2002”. Sarà anche il primo live-action a scomodare distributori locali per l’home-video. Miracoli della fede. Ma con Oshii nulla è garantito, e tutto è riciclabile visto che il film è nato sulle ceneri di “G.R.M.” (Garamu, cioè “Record of Garm War”), progetto iniziato nel 1998 con coinvolgimenti di sofisticata tecnologia digitale e, anche, flemmatica presenza umana. Replicanti estetici e cinematografici che “Avalon”, versione nuovo millennio non si farà mancare. Compreso quell’amor fou per il cinema polacco che tanta parte ha avuto nella nascita del regista Mamoru-san. Interessa sapere che per dare seguito a quella passione regista e staff sono volati alla volta di Varsavia e Cracovia per non lasciarsi sfuggire l’occasione di dare corpo reale (quindi affatto virtuale) alle ambientazioni del nuovo film? Dentro c’è di tutto: la realtà giocata e falsata da virtualità che comprimono e frantumano l’individuo come personaggio dei videogiochi, il solito personaggio femminile altamente conflittuale con tutto ciò che lo circonda e quella mania ad anagrammare il mondo vero con nomi altri e micidiali quando operano sul destino. Sarete d’accordo nel dire che “Avalon” è finalmente il capolavoro a lungo cercato?
Tutto fila liscio, concettualmente parlando, per la coscienza cinefila fino a quando il buon Oshii non sforna il seguel di “Ghost in the shell”, “Innocence” (di cui abbiamo riferito ampiamente nel primo numero di “MAN-GA!”). Altro tonfo al cuore, altra scarica elettrica al cervello. Il ricordo del primo film svanisce in un soffio sia per il trionfo di immaginazione sia per il gusto estetico così ricercato per il futuro disumano e apocalittico descritto da Oshii.
Occorre disintossicarsi e confondersi nella mischia puntando su se stessi e le proprie elucubrazioni, anche se culturalmente fuori dagli inghippi dell’animazione. Punto a favore è il recente “Tachiguishi Retsuden” (2006), ispirato a un suo libro, in cui si parla di cibo. L’incursione è tutta live-action, ma i risultati affatto incoraggianti al botteghino. Ora il problema si fa cruciale. Quale intende essere l’identità del regista dopo aver inseguito percorsi creativi e tracciato strade per future altre generazioni di animatori? Quale potrebbe essere il prossimo limite artistico da superare se già se ne è lasciati alle spalle più di chiunque altro?
Lui dice che ha voglia di commedie d’amore. In animazione. Sicuri di volergli credere?
 
di Mario A. Rumor
 
Lamù © 1981 Rumiko Takahashi/Shogakukan/Kitty/Fuji TV
Lamù – Only You © 1983 Rumiko Takahashi/Shogakukan/Kitty/Fuji TV
Lamù – Beautiful Dreamer © 1984 Toho Co., Ltd
Patlabor © HEADGEAR/Emotion/TFC
Ghost in the shell © 1995 Shirow Masamune/KODANSHA · Bandai Visual · Manga Entertainment
Avalon © 2000 Mamoru Oshii and Avalon Project
JIN-ROH © 1999 Mamoru Oshii/BANDAI VISUAL · Production I.G

 
 
On Air - scopri i programmi Yamato in TV

MAN-GA - SKY 149

L'Uomo Tigre

dal lunedě al venerdě dalle 23:15 in replica: da lun a ven 04:50 sab 06:00 - 06:25 - 06:55 - 02:30 - 03:00 dom 06:00 - 06:25 - 02:00 - 02:30 - 03:00 Man-ga's Collection: Giovedě dalle 10:10 (4 episodi)

MAN-GA - SKY 149

Dancouga - 1^TV

Attualmente non in programmazione

MAN-GA - SKY 149

Nadia - Il mistero della pietra azzurra

Dal lunedě al venerdě dalle 18:05 in replica: da lun a ven 01:35 - 03:55 - 06:55 sab 09:40 - 10:10 dom 09:15 - 09:40 - 10:10 Man-ga's Collection: Martedě dalle 10:10 (4 episodi)

MAN-GA - SKY 149

D'Artagnan e i Moschettieri del Re

Dal lunedě al venerdě dalle 17:40 in replica: dal lun al ven 01:05 - 06:25 - 12:00 sab 19:00 - 19:30 dom 18:35 - 19:00 - 19:30

MAN-GA - SKY 149

City Hunter - Serie tv

Dal lunedě al venerdě dalle 21:20 in replica: dal lun al ven 03:00 sab 14:20 - 14:50 - 15:20 dom 13:55 - 14:20

MAN-GA - SKY 149

Welcome to the NHK

Dal lunedě al venerdě dalle 21:50 in replica: da lun a ven 03:30 - 07:20 - 14:20 sab 20:00 - 20:25 - 20:55 dom 20:00 - 20:25

RAI 4 - DTT

Tokyo Magnitude 8.0

Attualmente non in programmazione

MAN-GA - SKY 149

Capeta

Dal lunedě al venerdě dalle 22:20 in replica: da lun a ven 09:40 - 17:10 sab 09:40 - 10:10 dom 09:15 - 09:40 - 10:10

MAN-GA - SKY 149

Maison Ikkoku - Cara dolce Kyoko

Dal lunedě al venerdě dalle 19:00 in replica: dal lun al ven 00:10 - 09:15 - 13:55 sab 08:45 - 09:15 dom 07:50 - 08:20 - 08:45

MAN-GA - SKY 149

Mimě e la nazionale di pallavolo

Dal lunedě al venerdě dalle 19:30 in replica: da lun a ven 22:45 - 13:00 sab 17:10 - 17:40 dom 15:45 - 16:15 - 16:40 Man-ga's Collection: Mecoledě dalle 10:10 (4 episodi)

MAN-GA - SKY 149

Ransie la strega

Dal lunedě al venerdě dalle 18:05 in replica: da lun a ven 00:40 - 03:55 - 06:55 sab 17:10 - 17:40 dom 15:45 - 16:15 - 16:40

 

About us - 2

 

Yamato S.r.l. Via L. Palazzi 5, 20124 Milano - P Iva 02150860969