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Press - 1993

Mazinga all’attacco

Luca Raffaelli
La Repubblica (Domenica, 18 / lunedì 19 aprile 1993)

Un convegno a Bologna sui personaggi giapponesi  dei fumetti e dei cartoni

La generazione dei bambini appassionati di Mazinga è diventata adulta. Ora si può permettere di organizzare una convention per rendere onore ai loro amati personaggi giapponesi. Si è svolta ieri a Bologna «Kappa», la prima manifestazione italiana interamente dedicata a manga e anime (termini giapponesi per fumetti e cartoni animati). Indetta dalla redazione dell'omonima rivista della Starcomics, sembra quasi una adunata sediziosa, alternativa a quella ufficiale organizzata in un'altra parte della città, dove ogni anno operatori di tutto il mondo partecipano alla Fiera del libro per ragazzi.
Per arrivare a farsi sentire fin là ci vorrà ancora tempo. Ora ci si deve riunire, preparare, contare. Bisogna armarsi contro un mare di banalità, errori, false leggende. Come quella del computer, la più grossa. Si è sempre detto, e ancora si scrive in lussuosi manuali sul cinema d'animazione, che i cartoni animati televisivi giapponesi sono realizzati con l'ausilio del computer graphic. Il vocabolo «computer» non viene mai usato in questo caso come per La bella e la bestia disneyana, dove è sinonimo di spettacolarità, alta tecnologia, meraviglia creativa. Per Mazinga il computer è protagonista in quanto macchina priva di anima, che permette una serialità facile e iterativa. Come se davvero bastasse spingere un bottone per avere un cartone animato al giorno.
Il bello è che invece negli studi di Mazinga & c. il computer non c' era per nulla. Ed è ovvio: i cartoni giapponesi costavano poco perché poco era pagata la mano d'opera. Negli anni Sessanta, quando è nata l'industria dell'animazione nipponica e il mondo del cartone animato era in grande crisi, le lavorazioni al computer costavano cifre impensabili per chiunque. Il fatto era un altro: i giapponesi avevano trovato un modo per essere veloci e spettacolari allo stesso tempo. Invece di puntare, come stavano facendo Hanna e Barbera, sul dialogo e la ripetitività dei movimenti, scoprivano i movimenti di camera sulle scenografie, le soggettive, la scena rallentata con la voce fuori campo con cui parlano i pensieri dei protagonisti e che allunga a dismisura il tempo dell'azione, drammatizzandolo.
Certo, i personaggi erano fermi, l'animazione povera. Ma lo stesso si poteva dire pure dei prodotti americani televisivi dello stesso periodo: anche i cartoni di Hanna e Barbera sono poveri, e gli ultimi Tom e Jerry di uno squallore infinito.
Cos'è allora che ha creato il gap tra la generazione dei giapponesi e gli adulti? Cosa ha creato tanta incomprensione?
I giapponesi si sono rivolti per la prima volta al pubblico dei bambini che guarda la televisione in solitudine. Ai figli unici, e ai figli di separati, di divorziati, di genitori che lavorano. In Giappone come nel resto del mondo. Non hanno più descritto la vita come un gioco, come hanno sempre fatto gli americani. Disney mette sempre una squadra di bonaccioni in campo contro un cattivo, che è poi un diverso.
Ai cartoni giapponesi la squadra interessa non più di tanto. E se sta giocando bene, lì in mezzo c'è un giocatore che da tempo non segna un gol, che ha la mamma povera e malata e i compagni che lo prendono in giro. Su di lui ricade l'attenzione e il dramma. I suoi pensieri ad alta voce trasmettono la sua ansia e la sua solitudine, e anche i sensi di colpa nei confronti della squadra stessa. L'uscita dal tunnel non è scontata, perché è la tragedia ad essere coinvolgente. Si può pensare che gli adulti abbiano rifiutato in blocco i cartoni animati giapponesi perché non sopportano l’idea di una rappresentazione così tragica dell’infanzia? Perchè, come scrive tra gli altri la “psicoanalista pentita” Miller nei suoi saggi, la tragedia dell’infanzia in età adulta viene rimossa e rifiutata?
Forse ai genitori non piace  che i figli  mettano da parte le rappresentazioni edulcorate della vita, i coniglietti e gli orsacchiottini, per vivere, tra drammi e colpe, lo scontro con un mondo adulto ingiusto e chiuso.
Una generazione di ragazzi si è buttata in questa passione come in una tana in cui rifugiarsi. In tutta Italia si incontrano migliaia di appassionati  che leggono fanzine, si iscrivono a club specializzati, hanno conispondenza con le produzioni e gli autori giapponesi, addirittura imparano le basi del labirintico linguaggio degli ideogrammi per comprendere le pubblicazioni che le librerie specializzate acquistano direttamente dal Giappone.
Gli appassionati se la sono presa perfino con chi ha scritto (giustamente) che le televisioni, e in primo luogo la Rai, nulla hanno fatto per creare un prodotto animato alternativo a quello americano e giapponese. Ma l'astio maggiore lo riservano a chi ha puntato il dito sulla violenza e la competitività che le storie giapponesi propongono, senza mettere mai l'accento sul rapporto di alta lealtà che lega i personaggi positivi, sull'istintiva ribellione che questi hanno nei confronti dei sorprusi e delle ingiustizie. C’è sempre molta enfasi, molta epica nei cartoni giapponesi, spesso prodotti per un pubblico adulto e riadattati in Italia per i più piccoli.
Altra accusa: la compentitività esasperata. Se il mondo giapponese si fonda su una competizione che è sotto gli occhi di tutti, in Europa si tenta solo di simulare minore accanimento. I bambini italiani si identificano, si riconoscono perfettamente nelle lotte rappresentate nei cartoni giapponesi. La competitività si respira nell’aria e si vive in famiglia: gli annime si limitano a darle corpo.
Sembra una storia di rivalsa generazionale molto simile a quella che si è avuta una ventina di anni fa a proposito dei fumetti americani anni 30: Flash Gordon, Mandrake, Dick Tracy erano brutti, violenti e diseducativi. Oggi i ragazzi editi all'Avventuroso pubblicano riviste, organizzano festival e scrivono saggi. Da ieri tocca ai giapponesizzati.

 
 
 
 
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